Personale Eden – Angela Greco

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Ogni libro di poesia in qualche modo obbliga il lettore, quando si tratta di libro riuscito, di poesia vera o che tende al vero, a confrontarsi non tanto con l’autore quanto con se stessi, col lettore altro che si diviene nell’inevitabile sdoppiamento tra lettore con una sua storia privata e lettore che nel libro si lascia trasportare dentro la vita dell’autore. Leggendo diventiamo inesorabilmente due persone: ciò che noi siamo, e ciò che l’autore ci porta ad essere. In questo Angela Greco, e soprattutto nel suo Personale Eden (La vita felice 2015, prefazione di Rita Pacilio) sa essere un’autrice di particolare efficacia.

Nel caso specifico devo innanzitutto dire che pur credendo difficilmente all’amore, a parte quello verso un figlio, e ancor meno alla presunta dolcezza dell’atto fisico, questo libro non nego mi abbia fatto un poco immaginare (sognare sarebbe dire troppo) il mondo caldo e generoso che la poetessa non solo è, ma crea.

A partire dalla lunghezza di versi estesi, non espansi ma figli di un discorso continuo senza sovrastrutture, o finzioni, tangente l’erotismo più fisico e reale ma mai volgare, anzi comprensivo in qualche modo della natura dell’altro e del sé, inclusivo della natura dell’altro, questa poesia si svolge come una parola sussurrata nella sfera quotidiana: nel letto, in cucina, la sera sul divano. I punti di riferimento non mancano e in linea di massima pur vivendo un amore in qualche modo privilegiato, anche a livello fisico, riescono a scansare i pericoli del retorico e della banalità, quanto quelli di un romanticismo melenso.

Ciononostante Angela Greco è donna che sogna e lo fa sul corpo di un uomo, e sul proprio nel momento in cui le mani di lui la toccano, e la fanno geografia. Un significato, sostanzialmente, del dialogo amoroso che proprio perchè non elevato o sovraelevato in iperuranici luoghi sentimentali appare vicino e considerabile, quasi vivibile. In una poesia, come detto, generosa, che pare invitare il lettore ad entrare in quella sfera intima, a guardarla, a viverla per un istante con loro. Forse, e questa riconosco è l’opinione del lettore che nel libro si lascia trasportare dentro la vita dell’autore che inevitabilmente anche io sono diventato, per troppa felicità dell’autrice. Una felicità non idealizzata, fatta di corpi e macchie, fatta di dita, fatta di natiche ai miei fianchi larghi d’attesa. Verso, quest’ultimo, che per chi conosce Angela Greco non può che apparire come una delle sue cose più belle.

 
 
 
 
 
 
Raccontami la periferia delle tue mani
quando incontrano nude il nodo dell’universo
e risvegliano il senso d’essere donna e tua
segna a dito ogni confine e oltrepassalo
col tuo sapore poi sconfiggimi senza altra parola
che non siano nome e sorriso tuoi e ferma il corpo
contro me / seno di latte dalle vie colme d’azzurro
ti lascio scorrere caldo in questa terra bianca
come la prima stagione buona
in fioritura anticipata ad un respiro

nudi piegammo la schiena voltandola d’incanto
e tolsi fiato all’erba serrandola tra dita voraci
fino a diventare noi stessi il paradiso perduto
e questa volta fu il creato a chiedere di entrare
in noi
dalle tue natiche ai miei fianchi larghi d’attesa
bastò una voce e fummo ancora e nuovi

 
 
 
 
 
 

riprendimi esattamente da questo punto
quello in cui coloravamo il ritrovarci stretti
precisi nello sbottonare voglia e labbra:

tra le tue dita il mio dettaglio nascosto alza la voce
e fughiamo chiaroscuri di silenzi ormai altrove da qui
ché sappiamo adesso dove posare l’istinto incrollabile
ad afferrare e restituire duplicate ipotesi di paradiso:

ritrovami ancora umida meraviglia
che ho atteso leccando una ad una piaghe d’assenza
mancanza oggi risolta dalla conoscenza delle tue rughe
varchi di tempo narrato ai miei occhi e sapienza
di sapermi nell’intimo di un ancoradadire:
siamo distanti solo un bacio non di più
e questa attesa è solo il nostro abbraccio più lungo

 
 
 
 
 
 

giungerò alla tua voce vestita di sud contando distanza in sillabe
l’ultima sarà in assonanza con caffè e risponderà ridendo
mentre scorri tra luce e orecchio e dal divano alla mia bocca
che tace rincorrendo toni e parole e fogli da salvare:

ferma la guerra e inizia rivoluzione a labbra dischiuse
nella vibrazione sottile che s’amplifica ma non si spezza
dalla nuca alle stelle voce profonda che possiede e trattiene
mi venivi incontro e m’inseguivi da far scoppiare il cuore
stessa radice soltanto oggi incrociata in poche lettere
raccontandosi estivi risvegli e profonde oscurità rischiarate
incredule come un semprenuovo che sorprende nella notte:

arriverai incapace da silenziare e sarà battaglia si sensi
risposta al movimento d’interno che d’appiglia al logico
emisfero contrario senza necessità di nominare questo sentire
percepito in serico scivolare lungo la schiena e brivido liquido
che dilaga forte tra pelle e ancora mani strette ai fianchi
primo e ultimo apriechiudi di porta senza bussare
dentro il rpesente capitato a noi per distratta fortuna:

non posso tacerti calore impudico e viscerale
saperti di occhi socchiusi e monosillabi
e così sciolgo tensione e sentire e m’abbandono
femmina per te acceso d’esperienza
m’avvicino e altro non attendo
che la tua lingua conosca la mia geografia

 
 
 
 
 
 

a scomporre luce in vertigini inattese le tue mani
e sospesa nella rifrazione della gioia ti vivo a pelle
tempo finissimo lento e caldo sgranato sul mio collo
gino a perdersi tra dune erette alla tua lingua capricciosa:

ho raggruppato aurore per vederti volto in questo verso
venire alle porte del giorno spalancate sul mio ventre
e rendere corpo con le tue dita alle mie forme sparse:

c’è un’essenzialità poetica innata nel minimo azzurro
che ci sovrasta – magma risalente scabre pendici –
una corolla di voglia al guado dello scorrere di petali
che senza chiedere permesso sfugge ad ogni controllo:

diviene così florilegio il tuo nome a scandire glorioso ore
susseguirsi di fiati sulla vertigine muta del quotidiano
e pagina dopo pagina scopriamo momenti strappati
a colori dall’intenso profumo, memoria ancestrale
evocata dalla tua pelle e dagli unoauno a dirsi noi

alla stessa levità dello scorrere sul tuo sentire m’accordo