Persona – Fausto Paolo Filograna

Persona - Fausto Paolo Filograna

Persona, Fausto Paolo Filograna (Ladolfi 2017).

“[…] Eppure ecco il paradosso: la morale è un vincolo, è rigida, necessaria. Ciò che è eterno invece è estremamente duttile. La moralità è condizionata dal desiderio, dal vivere comune, dall’avere uno scopo un senso. Le cose immortali sono libere, perché insensate e arbitrarie. Qualunque discorso vitale a un certo punto deve tirar fuori le cose eterne, il tempo, le cose immutabili. Ma questa volta chiamiamole doveri.”

Queste righe sono tratte dallo scritto che chiude Persona, la raccolta di poesie di Fausto Paolo Filograna, pubblicata con Ladolfi (che ne firma anche la prefazione) nel 2017. Proprio nella prefazione l’editore cita questo passo per corroborare con la voce dell’autore la tematica della mancanza di logica come fondamento dell’esistenza. Già questa istanza si colloca in una tradizione filosofica molto antica, come pure il titolo, Persona, termine che dall’antica Grecia ai nostri giorni, passando per i padri della Chiesa, si è caricato di molteplici connotazioni. Non è questo il luogo per approfondire la questione: ci basti dire che Filograna traccia in questo libro un viaggio durante il quale cerca di non prescindere da questo Passato, scovandolo nel presente da lui esperito. In effetti, Persona è un lavoro in odore di “poema di formazione”, testimonianza di una generazione di giovani nemmeno trentenni, di profonda inquietudine (resa tale da un buon bagaglio culturale), circondati dal nichilismo consumistico del nostro tempo e proprio per questo consapevoli che ci si debba attrezzare per salvare l’essere umano, la persona appunto, e la sua storia (senza la quale il futuro è negato), contro un presente che lo vorrebbe individuo, puro attrezzo del consumo, elemento di una competizione tra sconfitti.

Questi sembrano essere i propositi. Veniamo ora al libro. Composto da due parti, nella prima compaiono due “persone” (in senso teatrale) che faranno da filo rosso: “il girovago” (l’incertezza del vagare che deve comunque vagare) e “la bionda” (una figura quasi archetipica, un po’ Ofelia, un po’ Ligea). Sullo sfondo, anche se non sempre chiaramente nominato, il mare (l’immenso, l’eterno, ma anche la porta verso altri mondi, nonché dell’eliotiana morte). Anche Filograna sembra mettersi tra il cast, accompagnato da un “noi” piuttosto intimo che include “pochi e bianchi” personaggi. Questi sono gli elementi che affiorano in un verseggiare più adatto alla voce alta, alla ballata, che alla lettura silenziosa, spesso decisamente verboso e a tratti ingenuo (le affermazioni per sottrazione, le circonlocuzioni e la preposizione “come” sono spesso abusate e appesantiscono il testo), ma certo non avaro di versi davvero alti (“[…] Dio se n’è andato. / Questo cumulo di ossa / questa volta chiamiamolo madre / perché con amore va guardato.””). A ciò potrebbe esserci una spiegazione tecnico-tematica. Lo sguardo poetico oscilla tra passato e futuro, guarda in avanti e indietro, e quando si ferma al presente lo fa tentando di trovare una sintesi tra ciò che è stato e ciò che sarà: un cortocircuito fecondo, che riesce a volte ad affiorare, ma spesso si perde in troppe parole, andando in una direzione non sempre efficace per le tematiche proposte, e che travalica la misura dettata da quei versi ottimi e davvero profondi dei quali accennavo prima.

La seconda parte vede un nuovo personaggio, Alice (la donna amata?), pretesto e mezzo di filosofia. Anche qui i riferimenti al patrimonio letterario sono chiari, e il verseggiare seguita come prima. Ancora di più la foga affermativa, l’oscillazione tra la luminosità di certi versi e la bulimia estenuante e vitale continua, con risultati a volte barocchi che sembrano ricordare una conterranea di Filograna, Claudia di Palma, nome non sconosciuto ai nostri lettori.

Chiude la raccolta il testo (per certi versi esegetico) dal quale è tratta la citazione all’inizio di questa breve nota. Molto denso e interessante, e purtroppo inusuale: come osservava qualche giorno fa un mio caro amico, “perché ai concerti e alle mostre d’arte sono ammesse e anzi irrinunciabili le didascalie, e invece in poesia sono così deprecate?”.

Federico Rossignoli

 
 
 
 

Di seguito, alcuni testi da Persona di Fausto Paolo Filograna (Ladolfi 2017)

 
 
Eravamo a Gallipoli notte piena
eravamo pochi e bianchi faceva freddo
non ho voglia di mangiare questa notte
eravamo suicidi e battezzandi
attraverso la strada principale si arriva presto
 
fiammelle sopra la spiaggia fino a chilometri dal mare
la bionda seduta è vestita uguale all’altra
e ha gli occhi di un uomo morto
fermate la bionda non sopravvivrà
ha gli occhi di chi se lo prende il mare
 
un tizio con una torcia è messo a scacciarci
siamo troppi e puri come bestemmie
siamo santi e tutti troppo prossimi alla morte
un’estrema pulizia regna incontrastata tra gli ombrelloni e il mare.
 
 
 
 
 
 
Una città ci deve essere
Ma una città ci dev’essere
e dal mare merita un excursus.
Insegne a forma di croce ne diffondono la luce intermittente
la città ne vive illuminata a volte sì e a volte no
– e nel complesso no –.
Un tizio un girovago solo intuìto dai passi
o solo immaginato incedere, qualcuno
con scarpe leggere passa sulle macerie
e rotola, coi piedi, o con le scarpe
pietre sulla strada di pietre
piedi bianchi che possiamo solo intuire
strada nera che possiamo soltanto immaginare
scostano e fanno rotolare
pietre e calcinacci e i ferri
dei lavori incompiuti e lasciati lì senza nome.
Resti dell’acqua
di quando c’era l’acqua
questo è quello che fa l’acqua: portare
restare
senza esserci più.
 
Non c’è bisogno di immaginare luoghi, antiche regioni
cantieri abbandonati, desolazioni
residui del mare è soltanto
terra, visitata durante una stagione estiva
e abbandonata sotto i vestiti delle donne
andate, e ancora immaginate
svestirsi e rivestirsi dopo un bagno
 
e lasciare ciò che erano e andare via
come se ne vanno i serpenti
terra
tanta, morta soltanto perché visibile
terra con non più acqua
nata (ma sarà
poi vero?) per morte.
Il mare ha lasciato carte di consumazioni e manciate di ossa
da calciare e spostare con la punta della scarpa. Vieni
guardiamo meglio
non ci è rimasta
che simbologia
e l’importanza
del nome. Il tempio
è rovesciato.
Gli atridi piangono le colonne.
Dio se n’è andato.
Questo cumulo di ossa
questa volta chiamiamolo madre
perché con amore va guardato.