Patrizia Sardisco

Bozza automatica 22
 

Michele Paoletti intervista Patrizia Sardisco

 
 

C’era un tempo in cui con lentezza di chiocciola e lumaca si poteva indugiare sulle piccole cose, sulle briciole sparse dalla natura. In quelle giornate imbevute di acqua e di sole si intuiva tuttavia qualche piccola crepa, qualche segnale di fragilità come nelle pianelle infradito in gommapiuma che non riuscivano a durare per più di una stagione corta. Non basta oggi cercare quel passato in una foto perché l’immagine è soltanto un’impressione, forse la parola racchiusa dentro poesie di piombo potrebbe mantenere intatti i ricordi sparpagliati come in un’antologia con l’indice strappato di cui i figli dovrebbero essere custodi.

 
 
 
 

Qual è il tuo rapporto con la fotografia?

Trovo che la fotografia, in quanto forma d’arte, intrattenga straordinarie contiguità con la poesia. Ma se penso alle mie foto, a quegli oggetti del privato che da un angolo in ombra giocano a imbrigliare il tempo, devo confessare che il mio rapporto con esse è tutt’altro che pacificato. Trovo che siano artifici ambigui, che mescolano familiarità ed estraneità, generando una strisciante inquietudine.

Non è in chiave di rievocazione nostalgica che ne subisco la fascinazione, dunque, né cedo all’illusione ottica che ce le proietta come ricettacolo aderente di memoria, custodi silenti e pacifiche di un passato immobile che ci guarda benevolo da un punto più in alto, innocente del poi. Una foto è, in effetti, l’immagine di un punto nel semipiano dell’esistenza ma acquista dimensione, prende corpo e senso, solo se messa in relazione con altri punti. Il modo in cui si guarda al passato dipende dalla prospettiva, dal punto dal quale si osserva, e questo, per definizione, muta di continuo: è da questa mutevolezza che sono attratta. Dalla modalità attraverso cui il passato viene continuamente ridisegnato dal presente. Per fare un esempio legato alle poesie che propongo qui, le foto di quando eravamo bambini contribuiscono a costruire una mitologia privata rispetto alla quale  la narrazione che se ne fa (nel bene o nel male, non importa) crea una sorta di meta-realtà, una realtà di secondo livello che plasma  la memoria secondo una luce che non è mai esistita veramente: in questo senso, l’incanto dell’infanzia spesso non è che un abbaglio per sovraesposizione narrativa, un colore e un calore che si aggiungono a posteriori, di volta in volta più intensi. La realtà retrocede, fino a morire soffocata da una stratificazione di luce postuma mistificante.

 

La parola è in grado di mantenere intatto un ricordo?

Le parole sono strumenti raffinatissimi, le cui prestazioni dipendono solo in minima parte dalle loro caratteristiche intrinseche. Le colpevoli manchevolezze che solitamente vengono loro attribuite, povertà, usura, infedeltà, appaiono più spesso legate alle condizioni di utilizzo che non a effettivi difetti strutturali. I ricordi, in linea con quanto affermavo prima, lungi dall’essere copie fedeli di eventi del passato, sono forme di rielaborazione sempre impigliate in un divenire, mai concluse. Da questo punto di vista, quindi, la parola non può mantenere intatto un ricordo proprio perché contribuisce, mentre ne propone una propria codifica, a quello stesso processo di riorganizzazione delle tracce mnestiche che ci impegna per tutta la vita. Tuttavia, credo che la parola poetica, con il suo fertile mettere al mondo, possieda il vigore artistico necessario a dissolvere i nodi che legano il dire a un filo narrativo di tipo descrittivo, parziale e impreciso. Credo che il dire poetico, quanto più franto, evocativo e asintattico, sia in grado di approssimarsi per fulminee illuminazioni alla nota essenziale di un ricordo, di un pensiero, di un’emozione, sprigionandone il potenziale di immagini con il nitore istantaneo di un lampo nella notte, luce che interrompe per poche frazioni di secondo il buio: la parola poetica interrompe il silenzio, rende udibili le voci che lo abitano.

 

In questi versi spiccano elementi sensoriali: il freddo dell’acqua, il calore del sole, un nodo che preme sulla pelle. Il corpo conserva memoria del passato più della parola?

Come un libro di fotogrammi, il corpo antologizza il passato, scompostamente, senza averne contezza sistematica, e tuttavia con una impressionante precisione sensoriale che solo la parola poetica può tornare a mettere in scena, a rappresentare per immagini. Il calore di una stagione breve,  l’arco di un’aspettativa prolungata all’infinito, gli urti dell’esistenza, aderiscono al corpo con la tenacia vegetale di capolini spinosi. A chiamarli per nome, con il loro vero nome, si producono strappi, si cesellano vuoti, si condannano o si perdonano lacerazioni. Per un certo periodo della mia infanzia e in parte dell’adolescenza, l’isolamento, le insolenze e le insolazioni di interminabili estati trascorse in campagna, dilatavano il tempo in un durare ingente che cercava  voce e frescura di un’altra stagione tra le pagine di un’antologia enorme, densissima, ma stizzosamente priva di copertina e di alcune pagine, tra le quali l’indice. La lettura assetata di quel libro già allora incompleto, col dorso scoperto e le cuciture in vista, e che mi fu consegnato da mia madre come un pesante paio di ali, mi segnò per sempre a vento e a piombo. Nell’ombra confortevole e odorosa di tufo di una casa ancora e sempre in divenire, sedimentavo impressioni e l’urgenza di trovare le parole per dirle, la scabra carezza dei versi, la corsa coi piedi quasi nudi della Poesia.

 
 
 
 
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E per esempio in questa, Luca e io
e un fazzoletto timido di terra
la casa era in qualcosa nel suo retro
il velcro delle foglie di fagiolo
lui lumaca io chiocciola a seguire
viticci educatissimi
ai legacci del salice alle canne
 
e adesso è un’impressione
creata dal durare della carta
crepa nell’uniformità del testo
Il giallo di quel sole infatti è postumo
il suo abbaglio visibile tuttora
 
 
 
 
 
 
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Avevamo ginocchia ancora tutte tue e ai piedi
le pianelle infradito in gommapiuma
le chiamavi shanghai
e non volevi che andassimo
con quelle false suole per la terra
dove sapevi non accorgertene
le spine le erbe globuline
poi a staccarsele lasciavano quel vuoto
formali fedeltà a disubbidienze
 
facili a fessurarsi
l’arco era esilissimo
durava una stagione corta
 
tu riparavi
coi lacci corti e duri della scatola
e il nodo si sfaceva in sbuffi
e ci impicciava correre
punto cocciuto a rinfacciarci un torto
duro per poco
una specie di pane di frontiera
 
 
 
 
 
 
*
si scendeva alle Scale troppo presto
la casa coniugata all’infinito
tufacea epifania olfattiva
calce desiderante
senz’acqua senza luce
solo sole
 
la tinozza di zinco manteneva
sfrontatezza di  freddo
e  buio di sorgiva all’acqua
 
l’autunno lontanissimo
prendeva il vento dentro poesie di piombo
in questa tu lo chiudi in una figlia
l’antologia con l’indice strappato
 
 
Inediti tratti dalla raccolta Fototropismi