Partita Penelope – Simone Di Biasio

Bozza automatica 49

A dicembre in varie città d’Italia si sono svolte Le notti del Mito, ciclo di incontri, riflessioni, letture sul mito classico e le sue molteplici variazioni in poesia, con un occhio particolare a quanto è successo nel XX secolo e tutt’ora succede. Capita dunque a proposito Partita, di Simone Di Biasio, testo pensato per una performance, Odissea contemporanea, del collettivo Uneven eye. Il libro stesso si presenta come oggetto composito, e si avvale delle suggestive e colte illustrazioni (o come le indica l’autrice, didascalie) di Stefania Romagna, nonchè delle traduzioni in neo-greco di Evangelia Polymou. Ma veniamo al testo. Nella bella e informata prefazione, Alessia Pizzi scrive che Di Biasio ha composto un “[…] monologo in versi di Odisseo, eroe abbandonato sul campo di battaglia di Eros. […]”. Con questo libro, Di Biasio vuole rendere conto della dimensione più intima e “anti-eroica” in senso classico di un eroe omerico, provando a minarne la fissità di sentimenti ed emozioni solitamente (e a volte impropriamente) assimilate ad un contesto epico (e questo nonostante l’Odissea non sia l’Iliade). La dimensione recitativa impressa da Di Biasio è chiara, non solo dal punto di vista sintattico e della scelta del vocabolario, ma anche dai corsivi che titolano il primo e ultimo componimento, Voce (quella di Penelope prima e di Odisseo poi), a voler forse evocare la dimensione aedica di quella che era la prassi della poesia omerica.

Voce

Lascio la terra dell’ulivo,/ la grande casa che accolse le mie pene/ lo spazio che mi fu uomo, compagno e destino:/ ho combattuto anch’io la mia guerra/ e senza inganni ho trionfato sul campo/ che fa più schiavi della morte/ ed è più nero delle notti in cui mi lasciasti sola – sola./ Mi riprendo il mare e il tempo,/ la vastità m’attende oltre la gabbia.

Voce

“Hai lasciato le tue cose, di là, anche i miei messaggi/ e nella cucina i bicchieri sono ancora di vino:/ nessuno sapeva delle tue carte cucite a mano/ vent’anni sono una carriera da navigatrice solitaria/ a corte ho ucciso quel finto re che sapeva a memoria il mondo/ e adesso i tuoi ditali sono sparsi a terra:/ non posso dirti se la gravità sia una forza o l’isolamento/ o se quest’isola mente che siamo mai esistiti”.

 

Queste stanze, se ricordiamo che il titolo della performance era Odissea contemporanea, sono in effetti coerenti ed evocative, anche nel loro riferimento meta-poetico. Le riflessioni che Di Biasio mette nella mente di Odisseo si collocano in maniera intelligente e personale nella tradizione dell’ “eroe del dubbio”, dando inoltre l’impressione che le voci di Odisseo e Penelope si embrichino: “due voci più una”, insomma. La versificazione, dal punto di vista grafico a metà strada tra copione teatrale e stanza propriamente detta, è consona a questo affascinante risultato.

Riportiamo ora alcuni esempi del “monologo” vero e proprio

il viaggio indicasti a me lanciando ogni giorno
un grido un filo la voce come tela
io tuo burattino aprivo golfi come le tue cosce
ammaravo nelle insenature del tuo petto

col ventre a favore approdavo dentro le case
ho sfondato porte che credevo tue
entravo sempre in parti annunciate da acque rotte
non sapevo quali figli stessi mettendo al mondo

“è stata grata” – mi riferivano – e io non capivo
accostando per molto troppo tempo,
grata di un muro grata su una stanza sempre umida
grata su un buco in cui restare di notte affossata
e scusa, scusa ma non potevo sapere che
tessere non era atto, ma elenco di cocci
chiamata a raccolta delle sparizioni
non potevo sapere dei danni degli anni…

non avrei neanche potuto essere il guerriero più immortale
soltanto l’uomo più immorale della guerra
senza viaggiare dentro lo sconosciuto ardore
lasciando a casa – da te – le parti – di me – inamovibili:
il talamo figlio di quell’ulivo
il cane a penare di tachicardie
l’amore che ho appreso…
l’amore che ho appeso a quell’ulivo
perché divenisse – lui almeno – immortale
strenuamente àncora nei cicli vitali del ceppo
affinché da quell’ulivo si generasse un bosco
un bosco fitto dentro il nostro letto, Penelope,
un bosco in cui dirsi parole di linfa
un bosco in cui coltivare le nostre ombre
un accenno finalmente d’immobilismo

“e voi cosa cazzo cantate?
cosa contate? cosa contate in questo viaggio?”

ho scoperto con mie mille perizie
come distinguere continenti e perdenti:
i primi non possono invadersi
perché il possesso è un’assenza
poiché niente è nostro, amore…

[…]

Curioso osservare come il tono del monologo prenda una piega, sia concesso dirlo, quasi cantautoriale, e dunque, forse per via dei giochi fonici e delle ripetizioni, addomesticata, a discapito del contenuto di valore che Di Biasio ci propone. Del resto, alcuni dei non pochi ex-ergo all’inizio del libro già potevano far presagire questo andamento: accanto a Saba, Borges, Dante, Ovidio, Cappello e Di Biasio (Rodolfo), citati come autorevoli esempi di variazione sul mito, l’Autore riporta come “link music” versi di Caparezza, Dalla e Snider (musicisti che, spiace dirlo, stonano enormemente accanto ai poeti appena riportati). Più che nella sostanza, l’elemento che renderebbe questo Odisseo “contemporaneo” sembra appunto il dettato dell’Autore che quasi fa il verso al testo di un ipotetico pezzo di uno di questi cantanti. Il sapore che lascia sembra quello di un’occasione mancata, comunque non sviluppata fino in fondo, come invece sembrava stesse per accadere nelle Voci. Mi chiedo dunque se questa sorta di amaro in bocca, che in varie opere mi sembra di ravvisare, non sia dato proprio dall’equivoco culturale.

Mi spiego, (e colgo l’occasione per una divagazione che non necessariamente tocca il nostro libro): è singolare che l’orizzonte musicale al quale si fa riferimento in un ambito come la poesia, che legittimamente si propone colto e alto, sia spesso tanto debole qualitativamente. Non mi riferisco, ovviamente, al valore e al significato che ognuno, in cuor proprio e in base a peculiari vicende personali, può attribuire a una musica (campo che, possiamo dire, non è lecito discutere, e nel quale tutti hanno qualche “scheletro nell’armadio”!), ma proprio alle caratteristiche tecniche e di sostanza dell’ “oggetto musica”. Se con la letteratura ci sforziamo di studiare le asperità di un autore ritenuto Grande per poter uscirne arricchiti, con la musica sembra viga una sorta di allegra rassegnazione a stare sul “semplice”, sull’ “immediato”. Non sarà che questa “semplicità” influenzi, banalizzandolo, anche il dettato del verso, nel momento in cui quest’ultimo è “suggerito” da una musica non di particolare valore?

L’obiezione che potrebbe essere mossa a quanto scritto potrebbe essere che ciò che vale e ispira in queste canzoni sono i testi e non la musica, e il Nobel a Dylan corroborerebbe questa obiezione. Potrei anche essere tacciato di elitarismo verso la cultura pop, e mi si potrebbe ricordare che l’arte ha sempre mischiato ciò che è “aristocratico” e “popolare”.

Alla prima obiezione risponderei: se aveste letto i testi delle canzoni citate senza la musica, li avreste trovati validi lo stesso? Non credo. È la musica, anche quella di bassa qualità che ha dato loro un valore, in virtù di una forza persuasiva nota al potere fin dalla Controriforma. E alla seconda: certo, “alto” e “basso”, non “alta qualità” e “bassa qualità” (le esperienze che hanno agito secondo quest’ultimo binomio si sono irrimediabilmente perse, o si stanno perdendo). E gli “incolti” se messi nelle condizioni, sanno riconoscere la qualità: sarò anche un passatista, ma vorrei ricordare la commozione di Goethe quando, a Venezia, scoprì che i gondolieri cantavano le ottave del Tasso… Mi rendo conto che molto di quanto ho scritto potrebbe essere messo in discussione: forse la sola cosa che potrebbe avvalorare senza equivoci quanto dico sarebbe qualcosa che la maggior parte degli scrittori e dei lettori non fa: studiare musica. Con lo stesso impegno e frequentazione di quella impiegata nello studio della letteratura. Forse non ci sarebbe la stessa inconsapevole propensione ad accontentarsi, e si collocherebbe ogni cosa al suo legittimo posto.

Concludo tornando al libro. È certo che Partita sia un testo che, nell’ambito performativo per il quale è stato pensato, risulti efficace e funzionale. Tuttavia, avendo in mano il solo libro, pur corredato dalle raffinate illustrazioni di Romagna e dalla traduzione di Polymou, la sensazione è quella di un testo piacevole, a tratti originale (“[…] e adesso i tuoi ditali sono sparsi a terra:/ non posso dirti se la gravità sia una forza o l’isolamento/ o se quest’isola mente che siamo mai esistiti” sono versi indubbiamente riusciti), eppure non equilibrato come ce lo si aspetterebbe, o forse (me lo si perdoni), mùtilo.

 

Federico Rossignoli