Oggi tutto è incerto, l’attesa è castigo e disciplina – Emilia Barbato

 
 
La precarietà delle prime ore di primavera
si raccoglie nei respiri lentissimi delle fresie,
sfioriscono con la stessa levità dei pensieri
felici quando le lacrime rigano il viso.
Nella bruma dell’alba
il ciliegio si prepara
alla sua piena fioritura, sopraggiunge
l’ora della bellezza e della morte.
 
 
 
 
 
 
I brevi lampi dove solide crescevano
le attese e l’indocile presente, l’odore
della terra, tracciamo in silenzio una retta
comune degli spaventi,
progettiamo affinità, ma la bellezza si
fa piena se incompiuta
guarda come si smarriscono le nostre
figure allo specchio.
 
 
 
 
 
 
Che timbro ha, come suona la paura?
Vorrei che la nostra sibilasse come il vento
tra i rami del sambuco,
che fosse il rigo musicale di una foglia
e invece mamma mentre inseguo
la screpolatura che farfuglia le tue
fragilità un borborigmo
sinistro spaventa entrambe.
Ondeggiano ancora le lanterne di riso del mio tredicesimo
compleanno, quando sono sparite? Ricordi
gli anni semplici che brillavano? Oggi tutto è
incerto, l’attesa è castigo e disciplina.
 
 
(Emilia Barbato, Il rigo tra i rami del sambuco, Pietre Vive, 2018)
 
 

In questi testi Emilia Barbato ci costringe ad affrontare la fragilità dell’esistere nella sua natura al contempo preziosa e terribile. Sin dal primo testo, la fioritura primaverile rappresenta l’immagine della precarietà, associata all’uomo nel “respiro lentissimo” delle fresie – che “sfioriscono” con una leggerezza silenziosa, senza clamore, nello stesso modo in cui svaniscono i “pensieri / felici quando le lacrime rigano il viso”.

Il simbolo del ciliegio, caro all’estetica giapponese – emblema di massima eleganza, splendore e fragilità, incarnazione di una bellezza completamente impermanente e provvisoria – si mostra nel momento della sua “piena fioritura”, in un trionfo contestuale e interconnesso “della bellezza e della morte”.

Anche le attese, nonostante siano “solide” (forse più di ciò che è effettivamente atteso) crescono in “brevi lampi”, e si concretizzano in un “indocile presente”, che non si riesce a trattenere; nonostante le preoccupazioni condivise siano un sostegno, per l’affinità e il senso di comunanza che sembrano realizzare in una dimensione extraindividuale (“tracciamo in silenzio una retta / comune degli spaventi”), la Barbato ci ricorda (richiamando di nuovo un principio dell’estetica orientale, ovvero che l’unica bellezza possibile è imperfetta, impermanente ed incompleta) che “la bellezza si / fa piena se incompiuta”, ed è lo smarrirsi delle “nostre / figure allo specchio” che caratterizza il valore prezioso del nostro esserci, provvisorio ed imperfetto come quello del ciliegio prima citato.

Tale consapevolezza comporta, però, anche l’angosciante confronto con la fine di sé e del proprio mondo – e infatti la domanda che l’autrice si pone nel terzo testo è: “come suona la paura?”

“Vorrei che la nostra sibilasse come il vento / tra i rami del sambuco”, risponde, in un’immagine dove il timore si incarna in qualcosa di naturale, leggero, che attraversa rapidamente un albero che è simbolo di rinnovamento e di rinascita: vorrebbe, dunque, che la paura della fine fosse solo una lieve brezza sul fiore del ritorno, sulle radici solide e concrete della pianta del rinascere.

“e invece mamma mentre inseguo / la screpolatura che farfuglia le tue / fragilità un borborigmo / sinistro spaventa entrambe”, perché, se il pensiero razionale può riuscire a conciliare il sentire più vitale alla coscienza della dissolvenza e del dolore, vivere nella carne e nel sangue l’istante soffocante della frattura e dello sfiorire è inevitabilmente esperienza del tremendo.

È un attimo che, allo stesso tempo, rievoca “gli anni semplici che brillavano”, tra ricordi e domande; e nella chiusa, con un’autorevole presa di posizione – la Barbato porta questi elementi a unità: nel momento in cui si è coscienti che “tutto è incerto”, che il vivere è sia prezioso che fragile, e può elargire attimi di gioia come lunghi periodi di assenza e mancanza di felicità – “l’attesa”, sia essa di un di una parvenza di certezza, o di un momento appagante di cui fare tesoro, è allo stesso tempo “castigo” – per quegli attimi rari che forse non abbiamo valorizzato abbastanza, e ormai sono perduti – e “disciplina” – virtù necessaria per superare con forza, e senza cedimenti, quel terribile stato di sospensione, nella speranza che vi sia una possibilità di una rinnovata e sorprendente fioritura.

Mario Famularo