O sensi miei… – David Maria Turoldo

[…] Del resto la poesia si pone esattamente in questo punto, in questa ubicazione, anche quando può apparire ben lontana da qualsiasi riferimento mistico o religioso. Essa riporta sempre a una linea di valori che richiamano la qualificazione dell’uomo a un se stesso che si forma attraverso il linguaggio, fondamento a sua volta dell’aprirsi al mondo. È il linguaggio che consente la «poiesis»: creazione appunto, forza strutturante, autostrutturazione e poi luogo di ogni dialogo.

Con queste parole Andrea Zanzotto apriva la voluminosa raccola O sensi miei… di Padre David Maria Turoldo uscita per Bur nel 1993. Un’opera che ho cara e che mi piace ricordare. Ma oltre Zanzotto in questo libro di più di 700 pagine (alcuni anni fa qualcuno, senza fare nomi, in quel di Montereale Valcellina a un evento in sua memoria osò definirlo un grande poeta, di cui alcuni dicono che scrisse troppo, e forse è vero) appare anche una nota di Luciano Erba che riferendosi ai primi testi dice: È il sottile momento della seduzione del Nulla, dentro uno struggente richiamo di colori autunnali, novembrini, tipico, si direbbe, di qualsiasi poesia giovanile; senonché si annuncia qualcosa di più del solito dolce naufragare, molto di più: si profila una disincantata e diretta percezione del Tutto e del suo contrario.

Ma su tutto ci sono due brani che spiegano e descrivono, quasi in un manifesto poetico, i suoi versi: Credere è entrare in conflitto… Anche se poi tu non ti trovi più a camminare per gli spazi deserti e selvaggi d’oriente; anche se davanti a te non bruciano più i tramonti dell’Oreb e sul tuo capo pesa invece il cielo di caligine delle nostre città. E Dio è un anonimo (più che uno sconosciuto), perso come un barbone nell’intrico delle nostre giungle d’asfalto. E tu devi comunque trovare da solo una tua salvezza.

E ancora: A volte qualcuno grida e urla per tutti; specialmente quando prega. Ecco: saranno gridi e lamenti e denunce; e anche preghiere. Ma dirle poesie? Dio mi perdoni di lasciarmi chiamare un poeta: il poeta è un crocefisso, è un profeta, un povero e grande uomo, molto raro. Certo la poesia a salvare il mondo, o meglio, anche la poesia.

 

Alessandro Canzian

 
 
 
 
 
 
Miei versi dettati
dalle pietre, dal volto
arso delle case
non mi date riposo.
Un Dio troppo squallido
tengo in cuore
e queste piante
non attenuano
il sole che continua ad ardere
senza pietà.

 
 
 
 
 
 

Mentre il treno…
 
e lassù restano le piante
miti e la fontana
amica, e le pietre vive
e non immemori.
Lassù resta il ricordo
della mia fuga e del mio
solitario pianto.
Mentre il treno mi trascina
verso la città;
ma io serberò a lungo le parole
delle insensate cose.

 
 
 
 
 
 

Sola cetra
 
Sento che forse i miei occhi
sono estinti dalla troppa luce
e dal troppo fissare il sole;
il cielo alto. Sento
d’essere divenuto un cieco
che si muove per istinto
lungo deserte strade.
E il cuore, sola cetra
capace d’illudermi ancora.

 
 
 
 
 
 

Io non ho mani
 
Io non ho mani
che mi accarezzino il volto,
(duro è l’ufficio
di queste parole
che non conoscono amori)
non so le dolcezze
dei vostri abbandoni:
ho dovuto essere
custode
della vostra solitudine:
sono
salvatore
di ore perdute.

 
 
 
 
 
 

Povera che dorme entro giornali
 
C’è nuna povera in via Ciovasso
che non può più camminare,
e dorme entro giornali
nessuno di quelli che stanno
di sopra
ha tempo di scendere a salutare.
 
Per lei è di troppo
un po’ di scatole per guanciale
e stare
nel cuore di Milano.

 
 
 
 
 
 

Vigilia del protomartire
 
La vita è un mito che si apre
sull’alba tra un suono di campane
e si chiude in un cielo rosso di sangue
a sera. (Poichè domani udiremo
pregare sopra il fischiare dei sassi
il martire; udiremo
ululare le madri, e lo strazio
degli innocenti, e Dio che ci fugge
dalle avide mani.)

 
 
 
 
 
 

Non per me il pulito verso.
Uno scabro sassi la parola
nelle mie mani.
Intanto che gli affetti dissepolti
marciscono come foglie staccate
dalla pianta.
Questi i miei giorni vuoti di pudore,
i miei canti senza note
la verità senza amore.

 
 
 
 
 
 

Salmi penitenziali per la Settimana Santa del 1946

 
 

5
 
Invece tu sei un Dio muto
l’Essere che non ha pietà.
Forse tu avevi bisogno del nostro
dolore, di questo figmento
commosso d’uomo?
 
Oh, allora non maledirmi
se io riuscirò coi miei gridi
a rompere la tua pace
a comunicarti il nostro pianto.
 
E non desisterò fino a quando
le tue creature non siano
tutte nella tua gioia
e tu travolto ancora
nel nostro peccato
e nella nostra morte.

 
 
 
 
 
 

7
 
Ma dobbiamo illuderci
onde poter durare.
 
Ah, forse io non credo
che per gli altri,
io devo consolare
e cibarmi dell’altrui pena.
 
Sono un pugno di terra
viva; ogni parola
mi traversa
come una spada.

 
 
 
 
 
 

Milano, mia povera patria

 
 

1
 
Parole, inerti macerie,
brandelli d’esistenze
disamorate, panorama
del mio paese
ove neppure il gesto
sacrificale più rompe
la immota somiglianza dei giorni,
né le vesti sante coprono
la nudità degli istinti.
 
E i poeti non hanno più canti
non un messaggio di gioia,
nessuno una speranza.

 
 
 
 
 
 

2
 
E non più alberi sulle nostre
strade disperate. Nessuno
ha pietà almeno
delle pietre, dei giardini,
degli antichi triangoli d’ombra.
Le vie non hanno più linee,
gli archi sono cemento,
le colonne senza capitelli.
 
E dentro le case,
ognuno è solo
con la sua diffidenza.

 
 
 
 
 
 

3
 
Disancorati accenti del declino
delle amicizie, nelle sere
straziate lusinghe.
Han ceduto i cuori più saldi
nella rete delle intenzioni
taciute. I giorni
non sono che polvere
agli orli delle macerie. Questa
non è più una città.