Nel folto dei sentieri – Umberto Piersanti

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Di Umberto Piersanti avevo già parlato in riferimento a un suo vecchio libro (L’urlo della mente, 1977) e a una sua bellissima poesia (Rêverie). Quest’ultima in particolare mi dà modo di introdurre questo libro (che contiene appunto Rêverie) che Piersanti dà alle stampe con Marcos y Marcos nel 2015: Nel folto dei sentieri. Un libro che si inserisce con un certo senso di continuità nella produzione del poeta urbinese ma che si differenzia moltissimo da una sorta di usanza poetica alla quale siamo tutto sommato oggi abituati.

Paolo Lagazzi di questo libro dice: Come molte liriche di Attilio Bertolucci, i versi più belli di Umberto Piersanti sono gli echi, le cadenze, i frutti di un inesausto, vibrante cammino. La vita chiama, non ci si può sottrarre… Anche la nuova raccolta del poeta di Urbino Nel folto dei sentieri è un intreccio di gesti, sguardi, respiri tra macchie, radure, forre, calanchi, crinali ancora ardenti di luce, ma minacciati da un tempo nuovo di ombre, cose assurde, plastica, metalli, fantasmi. Incapace di accettarne le scosse e i sussulti, spesso il protagonista sente il bisogno di sostare osservando ciò che gli appare incomprensibile: il fiume incessante del reale, e in esso il pullulio degli umani, i loro volti, le loro voci, i loro viaggi vuoti, senza senso (da quidculturae.com). Parole precise quelle di Lagazzi che poi continuano con una delle migliori definizioni possibili di quest’opera: Esposto più di qualsiasi altro testo di Piersanti al sentimento dell’indecidibile, perennemente sospeso tra ciò che è e ciò ch’è stato, fra la dura minaccia del nulla e un bisogno inesausto di abbandonarsi alla rêverie, Nel folto dei sentieri è un libro ricco di contrasti: stretto, da un lato, dalla morsa del tempo in fuga, dall’altro evoca l’Aperto, il seme immenso del possibile, o afferma che il tempo non esiste, / va avanti e indietro, ci soffoca e ci carezza.

Poeta definito tra i più importanti della contemporaneità, con la particolarità di una voce riconoscibilissima, nitida, tanto personale da non poter essere confusa con quella di altri autori, Piersanti è inserito in diverse antologie e ha molte pubblicazioni poetiche e non solo (solo per ricordare i volumi Einaudi: I luoghi persi nel 1994, Nel tempo che precede nel 2002, L’albero delle nebbie nel 2008). Ma è anche il poeta che viene dimenticato nelle mappature (in questo blog ho diverse volte parlato del fenomeno poesia di questa estate, ad esempio qui e qui, con un parziale riassunto qui). È il poeta fuori dal coro che difende la sua posizione con una convinzione precisissima, quasi una poetica, e che mi ha dato modo di svolgere questa piccola intervista telefonica (l’autore mi perdonerà le imprecisioni, se presenti) dove ho chiesto del libro ma anche della poesia, del dibattito di queste settimane, della vita.

Un’intervista che ho trovato affascinante, semplice e intensa come è la sua poesia. Vera.

 
 
 
 
 
 
Intervista a Umberto Piersanti del 3 settembre 2015

 

Umberto Piersanti, Nel folto dei sentieri è sicuramente un libro particolare nel senso che si inserisce in maniera coerente, pur nella sua chiara evoluzione, all’interno della tua produzione poetica, ma nel panorama contemporaneo appare indubbiamente fuori dal coro. Da dove viene questo libro? Quale ne è l’origine?

Questo libro prosegue il mio modo di intendere e percepire la vita e in particolar modo la natura. Io mi considero un poeta incredibilmente legato alla memoria e nei miei versi persino la natura viene colta attraverso lo specchio della memoria. Ma non per raccontare una natura bella, perfetta, che oggi non sarebbe più. Non c’è alcuna dimensione ecologica nel mio modo di percepire il mondo. C’è piuttosto questo fatto: io ricordo un mondo contadino ma non in senso neorealista, non alla Olmi o alla Pasolini per intendersi, i quali contrappongono l’autenticità di quel mondo all’inautenticità di quello contemporaneo. Anche il mondo contadino ha in effetti cose tremende, per esempio ricordo che mia nonna mi diceva non passare sotto quella casa che ci sono certi spiriti, e io da bambino facevo quattro chilometri a piedi per non passarci. Oppure quando una donna abortiva, anche in modo naturale, veniva rimandata con la falce a lavorare. Però quel mondo di racconti e di oralità mi è rimasto inevitabilmente dentro il sangue. Ho un aneddoto, una cosa realmente successa, che forse può far capire meglio delle mie parole questo rapporto come io lo vivo. Subito dopo la guerra andavo giù, nel fosso, dove c’era la casa di mia nonna. Lì ci stava anche il mio bisnonno che ricordo con una benda celeste su un occhio, il quale un giorno mi disse: lo sai Umberto cosa mi è successo? oggi quando andavo giù per il fosso, a spasso col carro, ho visto un cagnetto, ciccetto, piccolino, m’ha fatto anche commozione, e allora me lo sono preso. Santa Madonna non lo avessi mai fatto, perchè questo a un tratto diventava sempre più grande, più nero, più grosso, sempre più pesante e i buoi non riuscivano più ad andare avanti, E allora gli ho dato una pedata e gli detto “ma tu sei il diavolo!”, e lui ha messo le ali e se ne è andato via. Questo era, come dire, il prendere il caffè da un amico. Ecco io vengo da questo mondo un po’ visionario, un po’ magico, un po’ lontano, questa era la mia formazione. Per cui il mio rapporto con tale antico è sostanzialmente una rappresentazione attraverso la memoria, attraverso il sogno. Dove la memoria trasforma situazioni perchè, come è stato detto, una volta passati sogno e memoria sono la medesima cosa.

 

La memoria quindi come filtro di lettura della realtà? Del mondo?

Per rispondere a questo domanda voglio raccontare un altro aneddoto, anche questo realmente accaduto. Quando ero piccolo mi mandavano in Colonia. Ce n’erano due: quella dei preti e quella dei comunisti. In quella dei comunisti si facevano tutti i peccatucci e in quella dei preti ovviamente non si poteva, ci si confessava. Una volta che ero nella Colonia dei preti mi ero invaghito di una ragazzina e volevo sedermi accanto a lei a mangiare. E invece stavo vicino a un ragazzino brutto, tutto butterato, e allora ho chiesto al prete se potevo cambiare di posto e lui mi disse: no! bisogna sacrificarsi in vita per guadagnarsi il Paradiso. E io gli ho chiesto se esiste veramente l’Inferno, in quanto se uno poi ci finisce resta fregato perchè si è sacrificato in vita e poi soffre comunque. Ad ogni modo volevo assolutamente sedermi accanto a quella ragazzina. Il ragazzo tutto butterato poi, il giorno che se ne è andato, è venuto a salutarmi con un: ciao ci vediamo. In quel momento ho veramente provato un tuffo al cuore, perchè tutto ciò che perdiamo irrimediabilmente cambia, si trasforma, diventa altro. Dunque è questo il mondo che io cerco di descrivere: un mondo trasformato dalla memoria ai confini del sogno, senza che questo diventi però mitologia.

 

Quando si parla di memoria, di passato, si fa inevitabilmente un confronto col presente. Tu hai espresso due concetti: l’oralità e la natura come memoria. Il tuo libro ha anche un’altra particolarità: esprime cioè la convivenza del bene col male. Quando hai raccontato che ti dicevano di non passare sotto quella casa perchè c’erano gli spiriti è vero che ricordavi un mondo superstizioso, forse per alcuni versi più ignorante di quello di oggi, ma è anche vero che era un mondo che conviveva col male e la sua esistenza molto più di quello che facciamo un po’ semplicisticamente noi. Nella tua poesia è forte il senso della precarietà della vita. Cito due versi: non so se la sua casa poi rivede e forse lo trova il lupo / forse la madre.

Hai perfettamente ragione, infatti prima ho parlato di una natura non mitologica. Un poeta come Damiani ad esempio ha una visione più positiva di quella che sento esserci nella mia scrittura. Da me è pieno, ma anche nei miei libri precedenti non solo in Nel folto dei sentieri, di aquile che volano con il coniglio tra gli artigli e di caprioli che possono essere trovati dalla madre ma anche dal lupo, per tornare a delle immagini del libro stesso. La mia natura si lega assolutamente allo spavento, alla morte, poi in questo libro più che negli altri il sentimento del tempo che passa diventa sempre più drammatico, più pungente, c’è una paura maggiore del tempo che passa, c’è precarietà. Oggi il tempo è questa precarietà. Io credo che ciò che contraddistingue la mia poesia sia il rapporto bene/male, luce/morte, sia una certa visionarietà orale che si distingue per sentimento anche in un poeta che amo molto come ad esempio Bertolucci. Senza banalizzazioni o semplificazioni. In tutto questo la mia natura è meravigliosa ma è anche oscura.

 

Quando un poeta porta avanti un discorso non è mai solo quel discorso ma è un ampliarsi di significati che coinvolge la poetica stessa. Leggendo il tuo libro a me è venuta in mente un’espressione che vorrei tu mi confermassi o mi confutassi: può essere considerato questo tuo mondo bucolico della poesia una reazione a un mondo metropolitano della poesia?

Non c’è una voluta contrapposizione. C’è però il diritto a non essere alla moda, che è molto duro nel nostro tempo. Io sono un poeta che ha pagato sulla sua pelle questa lontananza dalle mode. Ho cominciato a scrivere quando dominava l’avanguardia e parlare d’alberi era semplicemente assurdo. Un critico portò, parlando di un mio libro, una definizione che mi piacque molto: un’arcadia d’ombra. Arcadia d’ombra perchè mentre io tento di cogliere disperatamente l’armonia delle cose (io vengo da Urbino e sai benissimo che Urbino è la patria di Raffaello, l’artista che più di ogni altro ha tentato di creare un cosmo armonico), nello stesso tempo ne vedo la carica di inquietudine, di dolore, soprattutto di precarietà. Se tu prendi una poesia come Viola d’inverno, questa viola che muore appena nata e che mi ricorda i bambini che si diceva che andassero nel limbo, morti senza essere nemmeno nati, questo a me fa domandare quale sia il senso della vita per chi in essa dimora così poco. La poesia finisce con un’espressione tutto sommato drammatica, laica, che traduce il senso di una religiosità della natura: ma il dono della nascita permane. C’è questa aspirazione alla dono della nascita che permane, a un’armonia che possa nonostante tutto essere vissuta anche nel mondo più drammatico.

 

Tutto questo viene espresso in una lingua fluida, molto chiara. Avrai anche tu sentito il dibattito estivo attorno alla poesia e nello specifico vorrei ricordare Berardinelli quando dice che la collana di poesia Mondadori se chiude è perchè non ci sono più poeti leggibili. Il tuo libro però è un po’ l’emblema della leggibilità, perchè è chiarissimo. Cos’è quindi per te questa leggibilità della poesia?

Una volta Loi recensendomi sul Sole 24 ore disse che sono l’erede di una tradizione lirica e del canto. Io sono un italiano centrale e mi porto quindi addosso una tradizione. Ed è appunto quella del canto, della lirica. La Mondadori ha fatto delle scelte che hanno privilegiato fortemente un indirizzo molto specifico, settoriale. Einaudi ultimamente ha delle posizioni che personalmente considero un po’ parapoetiche. Per quanto riguarda quello che dice Berardinelli non sono d’accordo che i veri poeti sono finiti, ce ne saranno forse, ma sarà il tempo a dirlo. Io Nel folto dei sentieri sono stato definito tra le figure maggiori della letteratura italiana contemporanea ma non ero assolutamente d’accordo con questo inserimento. Queste sono definizioni che lasciano il tempo che trovano, non dicono nulla. Ritengo piuttosto di potermi identificare in una posizione precisa che è anche la più malvista. Bisogna capire che c’è un feticcio della modernità oggi che vuole la modernità stessa intesa come oscurità, come inquietudine. La mia chiarezza quindi, che poi non è così semplice perchè creare musicalità in un verso non è cosa banale, mi rende un uomo un po’ separato. Non sono dentro i grandi centri letterari ma rivendico un mio spazio e un diritto della poesia ad essere intellegibile, sonora. Alla fine se ci pensi i classici sono non di rado molto intellegibili, anche quelli ermetici. Oggi Montale, per fare un esempio, si legge con una facilità incredibile. C’è un fraintendimento di fondo perchè il suono, l’armonia, sono tutte cose negate al nostro tempo. C’è una retorica dell’antiretorica e io a questa sfuggo volontariamente ritenendo la mia scelta una strada possibile e necessaria. Sempre all’interno di questo discorso devo dire che il mio libro si contrassegna anche per un rapporto più deciso con la contemporaneità. Parlo di macchine, di bimbi che giocano, senza comunque tradire il mio percorso poetico. Solo ogni tanto dimentico la memoria e affronto il mio tempo.

 

Concludendo abbiamo parlato di intellegibilità della poesia, di canto, di memoria, di tradizione. All’inizio di questa piccola intervista hai raccontato di avere una formazione sostanzialmente basata sull’oralità, sui racconti. E nel tuo libro troviamo in effetti tutta una sezione in cui dichiari i testi come nati camminando in montagna. Raccontaci di questa sezione.

La sezione Aspettando l’inverno, ma in effetti non solo quella, è nata quando la Regione Marche ha deciso di fare un libro con diversi artisti a cui era stato chiesto di interpretare nei differenti linguaggi (foto, letteratura, eccetera) i parchi naturali della regione. Io ho scelto il Furlo, che conosco, dove ho camminato, ho cercato i funghi, ci ho fatto l’amore, ne ho visto i ciclamini, sono andato a vedere l’aquila dall’altra parte della roccia. Avevo con me anche un bravo fotografo, e mentre lui scattava io parlavo. Ricordo che ero teso, molto carico. Avevo dentro una pienezza e una fortissima voglia di dire e di quel dialogo alla fine ho cambiato poco e niente, erano poesie già complete così come erano nate camminando e recitandole per la prima volta. Ci sono momenti, situazioni, dove uno può passare attraverso l’oralità per scrivere. Altre volte ad esempio mi è capitato di scrivere racconti dettandoli direttamente e in stesura praticamente definitiva alla segretaria, senza quindi passare attraverso la scrittura. Io ho molto forte questo senso dell’oralità, vengo da un mondo dove l’oralità era importante, pensa alla mia infanzia non senza televisione ma addirittura senza radio, dove i racconti erano delle lettere ma senza indulgere in retorica (perchè poi è uno dei rischi). Il gusto dell’oralità ce l’ho addosso, la vita me l’ha poi anche salvata questa attenzione all’oralità però se non l’avessi avuto come tendenza penso non sarebbe mai emersa.

 

Benissimo, ti ringrazio molto per questa bella intervista Umberto.

 
 
 
 
 
 

Alcuni testi da Nel folto dei sentieri

 
 

Viola d’inverno

 
no, non tra le acque limpide,
le fredde erbe dei fossi,
ma qui, su questo greppo
scorticato da cancelli
e luci lattiginose
di lampioni nella strada sotto,
Natale se n’è andato
da un giorno solo,
un altro, intero anno
ormai trascorso,
la nebbia che si dirada
a tratti per un chiarore
tremulo e celeste,
scopre una viola
pallida e stupita
così fuori stagione,
d’ogni senso,
tra muschio lucente
e malva spenta

no, non metterla
nel presepio,
tra le brecce
bianche, i frutti rossi
di pungitopo, gli stecchi
secchi del dicembre
che bruciano nei forni
o sopra i monti,
non turbare l’inverno
che quella grotta tiepida
di fiati e paglia
illumina e riscalda

in questo stesso greppo
stento e scorticato,
un cespo di ciclamini,
il più tenace,
riluceva nel gelo

fino a dicembre
questa terra squallida
e contorta, profanata
dagli uomini e dai cani,
due fiori l’hanno scelta,
così segreti
ed appartati,
caso o necessità
non c’è risposta

in un tempo remoto
che la memoria cede
sempre al sogno,
fino qui scendeva
della prima casa
– Villa Gloria di vetri
colorati, di balconi –
quell’orto solo
e immenso,
col padre tra le canne
dei fagioli, le rose
e l’insalata
attorno al pozzo,
lo cerchia dell’infanzia
il vasto cielo

ma tra l’erbe inzuppate
d’acqua nera
più non scorgi la viola
il giorno dopo

e nella casa antica
sotto il fosso
quei morti appena nati
color seppia,
dal limbo che minaccia
li protegge
i cuori e gli altri segni
alle pareti

che senso ha la vita
per chi nella vita dimora
un solo istante?
la fatica del nascere
a che serve?

nata fuori stagione,
subito spenta,
questa viola d’inverno
mi rallegra,
la primavera cova
sotto il gelo

per quelli nati
e morti alle pareti
nessun annuncio c’è
di primavera,
ma il dono della nascita
permane

Dicembre 2009

 
 
 
 
 
 

le gole

 

che bianche quelle gole del Furlo
begli alberi e cespugli proprio dalla roccia
e lo scotano in autunno
una fiamma arancione presso le buche,
da qualche parte doveva esserci il nido,
ricordo una volta ch’ero salito sul costone
ed ecco che veniva l’aquila altissima,
non la vedevo bene,
aveva qualcosa tra gli artigli?
Una lepre forse, o magari nulla,
ma io la pensavo così alta,
con la preda tra gli artigli,
i piccoli l’aspettano arruffati.
Natura così bella e così atroce,
quell’animale soffriva sgomento
e moriva in mezzo al cielo
così azzurro, già mutato in nuvole nere,
dall’altra parte quelli in attesa del cibo,
la vita e la morte
le nuvole e l’azzurro,
l’acqua verde,
l’eterno, scontato, stupendo passo delle stagioni
della vita e della morte
del cosmo stesso

 
 
 
 
 
 

dentro la macchia

 
folta è la macchia
scendo sul costone
giù fino al fosso cupo,
non vedi nulla,
la volpe, il lupo, il tasso
e la timida lepre sono lì dentro,
strisciano, corrono, passano,
alla fuga intenti
o alla rapina,
tra la vita e la morte sempre sospesi

 
 
 
 
 
 
il capriolo

 
il capriolo piccolo
s’è perso,
gemono rami ed erbe
al suo gran pianto,
forse lo trova il lupo,
forse la madre

 
 
 
 
 
 
Sui prati del Petrano

 
le primule dei monti alte e infinite
nei lunghissimi prati del Petrano
e l’aria che le piega appena, appena
scorre larga e gelata a rasoterra,
si stringono le viole in ceppi fitti,
così cupe e splendenti
mai le hai viste,
sempre più rade sono le parole
per dire d’ogni fiore
e d’ogni pianta,
fermare lo sgomento
che t’afferra nel tempo
che procede
e sempre incalza,
gelida primavera ti è
d’intorno, gelida
come il giorno che s’inoltra
e le memorie fitte più dei fiori
il vento di questi anni
torce e gela

oggi
in questi prati passo
con una donna e un figlio,
un figlio che non guarda
e non t’ascolta
a queste luci e rami
indifferente,
abita una contrada
senza erbe e fiori
e non c’è nessun altro
nella sua strada,
ma lui avverte gli evi
i più lontani,
il tempo che precede
alberi e pietre

sempre mi sono grati
questi prati che primavera
rischiara e non riscalda,
questa stagione fredda,
di passaggio,
ma lo spoglio faggio
dove m’appoggio
altre luci evoca,
altri colori

ragazzo qui pregavo
con quegl’altri,
e poi sono fuggito
nel canalone
con un solo compagno
e due panini
e c’era un grande vento
sulle criniere
dei cavalli selvaggi
a noi d’attorno
e dopo,
molto dopo,
un altro quadro segue,
ce l’ho dentro,
con l’aria che scompiglia
la tua gonna
sotto quel faggio immenso
quando imbruna

e la memoria no,
non può fermare
il giorno che procede
senza sosta,
gelida primavera
per me sei autunno,
la primula del monte
lo rischiara,
così tenace e intatta
e luminosa

Aprile-Maggio 2012

 
 
 
 
 
 

Nevi

neve, neve altissima
quel giorno, sceso nel freddo
mondo sulla lettiga
giù per via Raffaello,
e neve dappertutto
in quegli inverni,
passano i treni
dentro la tormenta,
il padre è lì
rannicchiato in un freddo
cappotto grigioverde,
e tra gli abeti scuri
le pietre e il gelo
i ribelli nascosti
come lupi,
e il tuo magro sorriso
inquieta l’Ebe,
la bustina che pende
di traverso, la foto
sul comò dov’è nascosto
quel suo primo rossetto
e mai osato

pendono in quegli anni
da tutti i muri
a Viapiana, alla Torre
e a Scotaneto,
tra i santi
e i cuori trapassati,
la foto dei ragazzi
in grigioverde,
le pregano le donne
come agli altari,
alla tavola in cerchio
col pane e i rosari

e dopo il padre torna,
ancora neve,
e l’Anna che s’affonda
dentro l’orto,
la risolleva il padre
e la rincuora

e strideva la neve
alla finestra di Santa Chiara,
l’albero mio primo,
sta lì, quasi attaccato
al gran camino,
è calda la bambagia
e i mandarini
come il ramo che arde
spenta la fiamma

e poi quel sole chiaro
sopra la neve,
le orme delle lepri
nel gran bianco
e una ragazza bruna
che ride e cade
quel bacio a sedici anni
dentro la neve

questo è un anno di neve,
un giorno senza una chiazza
in mezzo ai campi
forse da novembre
non c’è mai stato,
no, non quella d’una volta,
le macchine la sporcano
e la stritolano,
l’ammucchiano ingrigita
lungo i bordi

e la fuga dei giorni
non s’arresta
e guardi le ragazze
al finestrino, i jeans sdruciti,
la neve quasi al mare,
azzurro e bianco
colore della sciarpa
e dei suoi anni,
e tu ridi con gli occhi
e con le mani amiche
contente per la neve
che le cerchia
e accompagna il treno
nel cammino,
questa fuga dei giorni
non avverti
che dentro mi raggela
sangue e vene

un cumulo soltanto
nella strada,
rozzo e contorto,
carbone fatto gelo,
e tra le margherite
in mezzo agli orti
il favagello torna
giallo e acceso,
è l’aria fatta bianca
per la neve
che dentro le si è sciolta,
fredda e chiara

sulla cesana alta e sconfinata
resta la neve
così bianca e intatta
nel verde che l’assedia
e la restringe,
e tu ci passi dentro,
la godi e odori
come in quei giorni
i più lontani e persi
che ci sprofondi
tutto con le capre,
ma la minestra è calda
che t’aspetta

nascono quelle viole
a due colori
della neve ai confini
fino al torrente,
alcune più intense,
quasi cupe,
altre d’un viola
lieve, biancazzurro,
e le primule a branchi
tra le rame e il falasco,
il colchico dal petalo più pallido,
colore della foglia,
lieve è il cammino
tra la neve e i fiori,
se li costeggi lento
e senza meta

Marzo 2010

 
 
 
 
 
 

Non avevo i tuoi anni

no, non avevo i tuoi anni
era già prima,
Mercatale di nebbie e di castagne
le macchinine azzurre
e rosso-fiamma,
e lei freddo
la polinesiana, ma bianca,
bianco il suo volto
bianche le lunghe gambe,
nerissimi i capelli
e lunghi fino ai fianchi
e quella gonna strana,
come foglie,
sulla corda levata,
alta sopra le sbarre.
sopra noi tutti
nelle maglie avvolti
e nei soprabiti allacciati,
nessuna era più in alto
sulla terra,
salita oltre gli sguardi
e i desideri
e le parole scritte
a sedici anni,
sì, quelle d’ogni tempo
e d’ogni cuore adolescente,
pallide come il fiato
e il ciclamino
che l’autunno sbianca
a quelle frasi avvolto,
dentro la tenda
scagliate di soppiatto

a quella tenda Jacopo pensavo
alla ragazza nel cielo levata,
e tu sempre di corsa,
sempre senza una sosta e senza meta,
Sisifo del mio tempo
e del mio sangue,
il tuo macigno copre
una nebbia scura,
nessuno sguardo la coglie
e attraversa,
zeppo di scaglie e punte
e duro,
duro più dei massi
del Furlo, anche del ferro,
no, non ti schiaccia,
tu sei un giovinetto forte
come quegli antichi
che coi serpenti lottano
e i cinghiali,
ma il viso ti stravolge
delicato
e lo sguardo t’annebbia,
confonde i passi

eri in un altro tempo,
in altro spazio,
elfo con la cuffia
nella piscina,
sguardo che non conosce i giorni,
non sa i dolori,
oltre alberi e muri
lontano e perso,
ora non reggo il volto
dal male segnato
e offeso

ancora salgo solo alle cesane
con una lunga canna
batto i rami di mele rosa
colmi, ma desolati
ai cancelli deserti delle case
che s’aprono ai comandi di lontano,
ciacco le noci
giù per gli stradini,
godo del vento,
bevo l’acqua chiara,
delle umane dimore
guardo i muri
che il rovo copre
e lento poi dissolve,
il ritorno m’aspetta
quand’è sera,
ma io vorrei restare
tra quei muri
aggirarmi tra i greppi
per l’eterno

ma la cosa dei giorni
non s’arresta
e io debbo tornare
alla mia casa
e scendere alla tua
così lontana,
il tempo non scegliamo
e le vicende,
l’unica libertà
resta la fuga,
così fragile e breve,
così assoluta

Ottobre 2010