Marco Bini

Bozza automatica 299
 
Michele Paoletti intervista Marco Bini
 
 

Uno dei grandi poteri che ha la poesia è quello di farci oscillare tra particolare e universale, tra quotidiano e straordinario nello spazio circoscritto di poche righe. Chi scrive può suscitare nel lettore una serie di domande che, forse, neppure si era posto inizialmente. La parola è una continua meraviglia, apre scenari, cambia punti di vista. Non importa se il punto di partenza è una semplice partita di pallone o uno sguardo lanciato sulla pila di libri che torreggia sul comodino in attesa di essere letta (e mai smaltita fino in fondo). Quello che resta, dopo la lettura di questi testi di Marco Bini è una leggera inquietudine, un senso di irrisolto, una tensione che ci spinge ad andare oltre, verso una direzione non ancora ben chiara, talvolta addirittura immaginata, verso uno scontro decisivo che […] / mai avremmo messo in calendario.

Si scrive e si vive sulle macerie che altri prima di noi hanno generato, sotto gli occhi di un dio incapace di cancellare le ferite, si scrive e si vive con la costante tensione di un telescopio che guarda fisso verso il cielo come un punto di domanda.

 
 

Come nascono le tue poesie?

Inizio a scrivere una poesia nella mente perché una parola o una serie di parole hanno un suono o generano un’immagine, che, nel momento in cui ne vengo colpito, mi incantano. Me le faccio risuonare dentro allo sfinimento: se così non smettono di suscitare la mia curiosità, vuol dire che c’è qualcosa, in quelle parole, che sta chiedendo spazio.

Quasi sempre sono le parole stesse a innescare l’inizio di un processo creativo. È anche vero, però, che quelle parole da qualche parte devono venire. Se devo risalire all’origine, credo stia in un mio modo di osservare le cose quasi “cinematografico”, anche se di un cinema al contrario, in cui io non faccio il regista che dispone gli avvenimenti, ma forse più lo sceneggiatore che si mette a scrivere dopo aver guardato il film e lo ripensa come gli sembra di averlo visto, o come vorrebbe averlo visto. In poesia credo esista una grande componente di autosuggestione perché è un campo magnetico che calamita ossessioni e ci attrae spesso verso gli stessi luoghi interiori, per mapparli e rimapparli continuamente.

 

Credi che la scrittura ci consenta di trovare un punto da cui ripartire, un percorso nuovo, una stabilità necessaria alla ricostruzione?

Credo ci consenta di compiere un percorso conoscitivo, verso noi stessi, il mondo e quel particolare campo di forze pieno di urti e meraviglia che è la vita. Non credo però in una dimensione riabilitativa o consolatoria della poesia. Anzi, penso che nella scrittura ci sia una componente di affermazione individuale poco confessata, che può diventare feroce talvolta: si scrive per superare la nostra finitezza, perché nel momento stesso in cui scriviamo ci stiamo avvicinando ai nostri limiti, nel tempo e nell’intelligenza; ma noi vogliamo brillare un centimetro oltre il nostro traguardo estremo. La poesia è come il tracciante che spariamo in cielo dal nostro posto per farci avvistare. Effimero e splendido, è un segnale che speriamo qualcuno ricorderà; e se nessuno lo farà, avremo comunque, anche se per poco, acceso una piccola luce dentro all’esperienza del mondo, e lo avremo fatto noi. Questo niente e nessuno ce lo potrà togliere.

 

In questi testi ironia e solitudine si contrappongono e la voce del poeta non cede mai al melodramma, all’autocommiserazione.

Mi fa piacere questo giudizio, vorrei riuscire sempre a evitare di caderci. Come dicevo prima, ci sono ossessioni alle quali la scrittura ci fa continuamente ritornare: una delle mie è sicuramente lo scontro tra malinconia – o quello che dalle mie parti si chiama “magone”, cioè una particolare forma di commozione che scaturisce sia dal ricordo, sia dal trascorrere stesso del tempo, una specie di nostalgia delle cose nel momento in cui accadono – e una tendenza all’ironia, se non al sarcasmo. Un’altra è sicuramente quella per la storia, una quarta dimensione che avverto in ogni luogo, gesto e parola. E ancora, forse più che la solitudine, il concetto di “lontananza” mi assilla da sempre – e forse ho finora scritto per lo più di questo. Lontananza fisica, da un ipotetico centro di gravità attorno al quale alcuni riescono solo a ruotare, senza potervi accedere; lontananza da uno stato ideale, e lontananza a volte persino da sé stessi. Il tracciante che lancio in cielo scrivendo prova a fare luce su questi spazi vuoti, mostrandomi non come colmarli, ma come attraversarli e abitarli pur non potendo ricucirli.

 
 
 
 
In cinque contro cinque, campo grande,
il fallo laterale pura speculazione,
neanche l’ombra di una tattica o di un tiglio
mentre il pallone macinava galassie
in un irragionevole volo perenne.
 
Si perdeva quasi subito il punteggio
e allora insistere protési al bel gesto
che costruisce leggenda e gerarchia
per lo scontro decisivo che (sapevamo)
mai avremmo messo in calendario.
 
Tutti a difendere, poi tutti avanti
compatti e scomposti; capitava
ogni tanto che un lancio e lo scatto
combaciassero, che ci lasciassero
riprendere fiato con le distanze
fattesi voragine a guardare il miracolo
del portiere che non accadeva mai.
 
 
 
 
 
 
Svaligiano il bosco e lo adagiano sul mare;
poi lo riempiono di bestie che spezzettano
e annegano nel sale. Eviscerano
i monti, ne riemergono con parti da fiondare.
 
Dispongono intere frazioni del creato
in torsioni innaturali, assumono posture
inconciliabili ai piedi della stessa croce.
 
Sul serio Dio interviene a sospingere i cavalli
o a correggere il tiro d’artiglieria?
Neppure la sua opera riassorbe il sottratto:
fumano e galleggiano senza redenzione le macerie.
 
Quattrocento anni dopo, tremila chilometri
a sud-est un missile nidifica su un tetto:
un telescopio nel quale sta per irrompere il cielo.
 
 
 
 
 
 
A UNA PILA DI LIBRI CHE NON RIESCO A SMALTIRE
 
che fanno gli occhi dolci dei gattini
non appena richiusa la porta e tendono
imboscate all’autostima; niente fusa
per l’ultimo arrivato elegante nella busta
con le bolle o nella borsa su misura.
 
Se il comodino ha un ripiano non ricordo:
un’unica ingovernabile ostinata arborescenza
inespugnata dal machete del mio divide
che non impera un bel niente tra divano
studio e letto.
 
“Carissimo, al nostro comune percorso” –
che, carissimo, da un po’ credo condividiamo
in mia assenza – si imprime dal frontespizio
all’interno copertina, scrivania, Torre Nord,
primo piano, interno due, piena periferia praticamente.