Marciapiede con vista – Filippo Strumia

Ci sono libri di poesia che appaiono di facile e immediata leggibilità ma quando cerchi di riassumerne il senso, o cerchi un filo conduttore che ti aiuti a focalizzarne i punti più importanti, ti rendi conto di non riuscire ad afferrarlo. Perché la poesia è cosa che va afferrata ma non sempre è così accomodante come la si vorrebbe o come inizialmente sembra essere. Mi vengono in mente i false friends che insegnavano alle lezioni di inglese a scuola. Ma in fondo la poesia la possiamo considerare come una false friend per definizione nel momento in cui ha come obiettivo il dire una data cosa dicendone in effetti un’altra.

Marciapiede con vista di Filippo Strumia (di lui avevo già trattato in relazione a un suo saggio L’emergenza del verso. Note di analisi della poesia inserito nel numero 37 della Rivista di psicologia analitica intitolato Vite che non sono la mia. Realtà letteraria e relazione analitica) edito da Einaudi nel 2016 è uno di questi libri. Apparentemente semplice, con una metrica non di rado riconoscibile anche se con certa duttilità (ad esempio gli ottonari di Se colui che entra al bar / e lo stesso che ritorna / poco dopo sul divano / sono estranei combacianti, / ciò che svela la parola / è il tamburo della riga. / Vivi ai tonfi della rima, / ogni istante è migrazione / a poco prima, o i novenari di Il cane va per conto suo, / così il ragazzo attraversando / offre enigmi in tatuaggi, / un vecchio scarta caramelle, / ogni passo è melodia, testi che condividono una chiusa volutamente più breve), si snoda attraverso minime variazione della quotidianità che come punti d’appoggio o riferimento a tratti diventano rimandi interni, echi.

 

Sei tu che cammini dove vuoi
nel tempo tra l’ufficio e il bar,
lì dove la cartaccia posa
accanto al sasso.
Il verso è una finestra
azzurra di medina
e la vecchina là nel tram
è un arco teso
che scocca dentro agli occhi
e sfila già più lieve
d’ogni nostro ripensamento.
Il senso è una parola
e dice altro che non c’è.
 
 
 
 
Se non fossi di spalle,
donna che passi nel tram,
io sarei un inizio di frase
un «pioveva da giorni»,
qualcosa.
 

Un libro che inizialmente sembra escludere la presenza umana raccontando non la vita quanto l’esistenza degli oggetti. Lo si legge anche in nota al libro: La prima poesia della nuova raccolta di Strumia è una precisa dichiarazione d’intenti: «Flesso appena in un inchino / si congeda dai lampioni / anche l’ultimo passante. / E là dove non siamo / la parola cede al sasso, / il luogo torna ciò che è.». L’intento di Strumia è proprio quello di raccontare quel sasso quando l’uomo non lo guarda piú, quando le categorie umane per percepirlo si sono dissolte. E lo riporta Bianca Garavelli in una bella recensione apparsa ne L’Avvenire del 23 dicembre 2016: Il «marciapiede con vista» del titolo è il teatro privilegiato di apparizioni essenziali, movimenti di vita inattesi. Sembra da questi versi che gli oggetti più quotidiani, gli elementi più scontati del paesaggio urbano, gli animali domestici e non, vivano una vita propria, più autentica, appena gli esseri umani distolgono lo sguardo. Più di ogni altra cosa, sono protagonisti di questa vita segreta i sassi, che si rivelano gli abitanti primordiali del pianeta, e il simbolo di una felicità senza costrizioni, ambizioni e inutili dettagli. L’augurio più grande che l’autore possa fare è dunque di «essere felice come un sasso». Accanto ai sassi, rappresentanti di un mondo minerale senza tracce umane, marciapiedi, panchine, cartacce, sono gli attori di questa scena senza umanità. E, inaspettatamente, gatti.

Roberto Galaverni invece, in modo assolutamente preciso, nelle pagine de La Lettura del 16 ottobre 2016 afferma che La poesia di Filippo Strumia provoca a tutta prima una specie d’inganno ottico. Come già accaduto 5 anni fa con la sua prima raccolta di versi, Pozzanghere, anche il nuovo Marciapiede con vista (Einaudi), rimanda infatti a un contesto cittadino ordinario e minimalista che l’interrogazione del discorso poetico — che è invece di natura filosofica e assoluta — di per sé sembra smentire o per lo meno contrastare. C’è il «marciapiede», dunque, e c’è la «vista», anche se per la definizione di queste poesie a contare di più sarà ovviamente la risultante del loro rapporto. Anche solo a guardare i titoli delle sezioni ci si aspetterebbe lo stesso accostamento tra la chiusura dell’orizzonte cittadino e una dizione più o meno atonale o prosastica a cui si è affidata non poca parte della nostra poesia degli ultimi decenni: Cartacce, Gatti, Lampioni, Mendicanti, Passanti, Panchine, Tombini. E invece: «Sprofonda nelle piccole cose / e sopravvivi con me, prendi un pugno / di lucciole e apri in palmo la galassia»; o ancora: «E congiungi gli equinozi / in quattro passi fra le case / fino al bar». Si direbbe che qui la vista conti più del marciapiede; o che almeno le prospettive celesti ma anche, come tante volte accade, le meccaniche atomiche o molecolari, siano decisive per comprendere natura e destino di chi sul marciapiede sta camminando. Di fatto, poi, l’espressione poetica riesce singolarmente metaforica. […] Non diversamente l’oggetto dell’attenzione — la città coi suoi abitatori, appunto — non risulta mai fine a se stesso, conclusivo. Anzi, per certi versi non sembra essere che il pretesto o perfino la cavia di un’indagine non particolare ma strutturale, volta cioè, come spesso viene ripetuto, alla comprensione o al ritrovamento del «senso», del «punto archimedeo». E infatti: «Non è più degli uomini / l’onore del senso». Prima dell’individuo Strumia ha in mente la specie, più che al qui e ora guarda alla provenienza e alla destinazione dell’uomo. E quando osserva se stesso — non è solo un vizio professionale — lo fa anzitutto traguardando nella propria immagine le figure della madre e ancor più del padre («Scrivo solo per avere te», confessa in Padre). In questo modo si costruisce come un’archeologia o, viceversa, un oroscopo delle figure che cadono sotto gli occhi della voce che interpreta e argomenta. L’«adesso» appare come un privilegio che spetta soltanto alle cose, agli animali, alla materia. L’«osso», il «sasso», la «terra», tornano di continuo come sinonimi di annichilimento e perfezione, come un punto di riferimento se non d’arrivo per l’uomo. […] Una segnaletica e riferimenti minimi, dunque, per una poesia apparentemente minimalista e invece il più delle volte assertiva e tendenzialmente sapienziale. Basti pensare agli insegnamenti, alle esortazioni, agli imperativi, ai tanti «non trascurare», «resta», «guarda bene», «non pensare», «lascia», «non credere», «non curatevi»… Questa specie di strana equivocità riguarda del resto l’intero assetto della poesia di Strumia, che combina elementi tematici e ragioni stilistiche di provenienza anche molto diversa.

Un libro infatti che a fronte di un’iniziale esclusione della presenza umana dimostra poi d’essere un più profondo spostamento di prospettiva dove la presenza umana più che esclusa viene immedesimata nelle cose. Non con l’invasività di un’antropomorfizzazione quanto con un vero e proprio assorbimento nella cosa (non della cosa). In altre parole per andare a rispondere a una delle domande più classiche quanto antiche dei poeti e dell’uomo, il io chi sono (e come giustamente dice Galaverni l’io qui è un io/specie, io/noi), Strumia sceglie di diventare il sasso, il tram, l’autobus, il gatto, il tombino e via dicendo eliminando l’azione straniante dell’uomo per capire la realtà e la vita nella loro costituzione più essenziale. E non a caso nei rimandi interni si nota un ritornare intenso e importante delle ossa (l’impalcatura essenziale dell’uomo): Quando il dito segna un punto / ti chiedo di volare a Dio / e quando lasci l’orizzonte / ti prego di tornare alla bianca / dignità delle tue ossa […] Pochi passi, lentamente, / la panchina è compassione, / tu che scarti nelle ossa / smeraldi di tortura, / ora sciogli una caramella / al gusto delle rondini […] Non trascurare l’osso storto, / il cucchiaio di miseria / nella tua minestra.. […] Tutto finisce. L’ho gustato, / digrignato, / ora cerco un altro osso. / Una luna da abbaiare.

Questo immedesimarsi nelle cose diventa talmente profondo da lasciare talvolta il dubbio che anche l’uomo sia una cosa o, almeno, che il rapporto instaurato col mondo provochi delle conseguenze, dei residui nell’uomo stesso: Ho visto colare a picco / denti morti sul selciato, / ho visto l’arpa andare in pezzi / nella cassa del torace. E più avanti Ho visto tra la gente / un ragazzo che cammina / e ho il marmo nelle vene. In questa modalità di relazione col mondo si finisce inevitabilmente con l’ampliare e con il confondere i confini dei soggetti coinvolti nella relazione stessa. Così come si amplia la domanda di sottofondo, quel io chi sono che si scopre arriva ad inglobare la domanda io dove sono. Non mancano infatti i riferimenti spaziali, i testi che parlano di movimento: Trova un punto nello spazio, / l’istante circoscritto / e sarai canto. […] Giri l’angolo e non c’è niente / e non puoi tornare indietro / al ritmo di quel dancing / latinoamericano. […] E l’autobus che passa / volge gli occhi alla casualità, / alla cartaccia che dà in volo / una deposta felicità. […] Ho visto un uomo transitare, / seduto al tavolino, / col volto di chi pensa. […] Ho visto la mia pelle in traiettoria / traversare la galassia / e ho perso l’alfabeto […] il ritmo che muove le case / e semafori al passo.

In realtà Strumia arriva se non proprio a rispondere almeno ad assolvere la domanda di fondo: A quest’uomo cade il nome, / cede il passo al marciapiede. / Ora esiste. E nel momento della sua esistenza arriva a coglierne anche il significato che, al pari del sasso, è silenzioso ma anche privo di contraddizioni:
 

Ho incontrato madre terra nella buccia
delle cose, qualche mano con le carte
e due chiacchiere fra amici.
Forse è questa la gran storia, scomparire
ma non dirlo in un grammo d’innocenza.
 
 
 
 
La chiave è rotolata nel tombino,
e la grata ha un volto d’artigiano
che chiude la bottega e torna a casa;
è la mia porta, che non so più aprire,
a dare buio su quest’uomo goffo,
a farmi passi di qualcuno in strada.

 

Un’attenzione particolare viene infine data alla parola e al suo essere strumento di relazione: Il senso è una parola / e dice altro che non c’è. […] E tornano a cadere / parole dalle cose, / e cosa fare di questo / stare qui è la domanda / da dimenticare. […] C’è bufera nelle labbra / e neanche una parola.. Parola capace di esprimere ed esplorare quell’essere felice come un sasso (Per lasciare le parole / alle loro lamentele / segui il giorno fino al buco, / vai nel tonfo. / Là intorno è un girotondo / di ombelichi, sei felice / come un sasso) assumendo anche in questo caso una diversa prospettiva:

 

Ho fatto tanto per prezzare
la mia lingua in salamoia
in offerta allo scaffale
delle farine, delle mattine
di sole sui lavoratori onesti
e ho capito che la corretta
quantificazione
è sedere come un gatto.

 
 
 
 

Filippo Strumia è nato nel 1962 a Roma dove vive e dove lavora come psichiatra e psicoanalista di orientamento junghiano. Ha all’attivo numerose pubblicazioni di racconti e poesie in antologie e riviste letterarie. Prima del volume Marciapiede con vista nella collana «bianca» di Einaudi ha pubblicato Pozzanghere (2011). Tra i saggi che affrontano il tema della poesia, da citare il suo contributo L’emergenza del verso. Note di analisi della poesia, inserito nel numero 37 della Rivista di psicologia analitica intitolato Vite che non sono la mia. Realtà letteraria e relazione analitica. Anche scrittore, nel 2012 Strumia ha pubblicato per la casa editrice Elliot il suo primo romanzo, Flumen, un noir in cui il fiume del titolo è il Tevere con protagonisti l’ispettore Capuano e l’assistente Lombardo, in cui si riverberano i temi della riflessione filosofica propri anche della sua poesia. Il 28 gennaio viene presentato da Alessandro Canzian a Trieste all’interno del ciclo di incontri Una scontrosa grazia.

 

Alessandro Canzian