Luogo del sigillo – Alfonso Guida

Alfonso Guida, Luogo del sigillo, Fallone editore, 2017

 

La poesia di Alfonso Guida è una poesia che va letta ad alta voce. È commovente in quanto implica una partecipazione diretta del lettore. Una partecipazione costante. Si potrebbe pensare che sia una cosa tipica della poesia, quella di rendere partecipe il lettore. Tuttavia non sempre è così. C’è un tipo di poesia che è più legata al silenzio. Questa di Alfonso Guida è una poesia non contemplativa. Parte del merito è della metrica utilizzata. Luogo del sigillo è un libro complesso e autentico, ricco di “indicatori” che non sono spunti ma vere e proprie colonne portanti. Uno di questi indicatori compare subito a pagina 5 per poi riempirsi di senso diverso lungo tutto il libro: Torremozza. Non è importante che sia un luogo vero o ideale. È un luogo reale nel contesto del libro: “Torremozza è il primo chiodo che sento/parlarmi a notte”. Torremozza è una matrice. Ciò da cui si parte. Ciò a cui si ritorna. Se si può raccontare ciò che è stato, se si può raccontare la matrice è solo perché guardiamo da un’altra prospettiva. Non a caso Luogo del sigillo è il libro conclusivo della trilogia psichiatrica, cominciata con A ogni passo del sempre (Aragno 2013)  e continuata con Poesie per Tiziana (Il ponte del sale 2015). “Mia eco, mio niente,/ Torremozza non fu che una matrice:/ concezione e concepimento”. Mi piace pensare a un parallelismo con La montagna incantata di Thomas Mann, romanzo enorme, per le convergenze/legami tra Torremozza e la montagna incantata. Entrambi i luoghi hanno piani di lettura diversi. Si può parlare di luogo “altro” nel senso di distaccato (distaccato perché lontano, distaccato perché lo si guarda con occhi indagatori). Entrambi i luoghi mantengono in un certo senso l’alone di incanto. Parliamo di luoghi di verità e allo stesso tempo luoghi di rapporti estremi.

Torremozza è luogo simbolico perché luogo carnale: “non è mai nevicato a Torremozza”. La neve copre, la neve inaugura la stagione delle cose candide. Non può succedere questo a Torremozza. Spesso, all’interno del libro ci troviamo di fronte a sentenze, a descrizioni di accadimenti che possono avvenire solo al di fuori del cerchio di Torremozza: “un mantello rupestre, nero/ calancoso, la ghiaia chiude i portici/ dell’ospedale, il pavimento infartuato/ scende in fondo alle Pleiadi. Il custode/ l’amara esca del sale e, più oltre, il glicine”. E qui c’è anche la scrittura epica di Alfonso Guida, una scrittura che parla di addio già segnato, di un destino da leggere nelle cose, di “dolore che tutti ci toccava”, come se fosse possibile, e lo è, toccarlo il dolore. Un destino da i cui i fatti non sono esclusi mai.

Melania Panico

 
 
 
 
Non avrai niente. Solo un po’ di cielo,
la quieta solitudine dei vetri.
Non potrai prendere un treno, dormirai
sui cespugli, tra i ginepri, mangiando
fichi, succhiando gocce di acqua fresca
dall’angolo delle pietre. Vuoi vivere
di poco, ascoltare la pace farsi
flutto e sapore di croco, avrai scarpe
cucite con lo spago e i chiodi, il guado
del mondo non ti appartiene, stai fermo
proprio adesso che la pioggia ha sfiorato
la tua testa e il Nulla, tra le ossa nere
dei fiori morti, indietreggia, oscurando
la tua storia, i tuoi giorni, è questo che vuoi?
 
 
 
 
 
 
Dobbiamo morire. Questo è l’assurdo.
La voce che chiamò istinto, la forbice
nera del vuoto. Il tempo ci dà spazio.
Noi speriamo nel raccolto. Bruciamo
la legna che ieri abbiamo ammucchiato nel
bosco, una faggeta verde, freschissima
che non darà calore. Spalanchiamo
nell’acqua le mani, torno a pregarmi,
l’invisibile oltraggia gli occhi, certe
barche che resteranno ferme sulla
riva per sempre. Non mi batte il cuore.
Blocco la voce sui petali azzurri
delle petunie. Ora puoi dire senza
rancore, in piena luce: non è niente.
 
 
 
 
 
 
Tra lo specchio, il tegame appeso al margine
crudo del geranio, né siepe né arnica
di cuoio, solo un futuro sospeso,
la scrittura di Hemingway all’ombra, nel bar,
quando l’estate è correre lasciando
la minestra nel piatto color sabbia,
quando l’estate è un giro di pelle che
cuoce e tu srotoli nel prato il muro,
la fuga, l’oscura ostia vignaiuola.
Ma io sentivo il dramma del mare avvolgere
la schiena, le ore taciturne e plebee
del tramonto, quando gli uccelli sanno
di essere attesi o rimpianti o cercati
nell’incontro liliale col destino
che porta con sé ancelle e guerrieri, e tu
ridi perché sai che fingi, che è un gioco
rammentarsi, o dover scegliere per anni
prima di andarsene, gli anni apostolici,
gli anni ossuti, cruenti, gli anni che fanno
la nostra tenerezza, il vuoto nero
dell’abisso, Torremozza era questo.