L'infinito istante – Sergio Zavoli

zavoli

L’infinito istante di Sergio Zavoli è un libro Mondadori che ha ormai un paio d’anni ma che non perde il suo fascino e la sua natura di caposaldo della letteratura italiana degli ultimi decenni. Un libro che chiude un trittico (secondo il prefatore) composto in precedenza da L’orlo delle cose e La parte in ombra. Sempre in prefazione si legge: L’umanista, e grande critico (Carlo Bo), aveva già messo in luce il lavoro di scavo che Zavoli portava avanti nei suoi versi, via via raccogliendoli in testi da cui traspariva una coscienza poetica alla quale restava estranea ogni abilità esteriore e in cui si precisavano le sottrazioni verbali care a Montale, che anche oggi fanno dire a Zavoli: «la poesia sta appena nei dintorni di un istante».

Ed è proprio quest’ultima frase che illumina il titolo e la poetica che ne emerge: la poesia sta appena nei dintorni di un istante. Un istante che per concetto è un momento, una breve durata, un’occasione che si consuma velocemente nell’entità del suo significato. Un istante che però Zavoli allarga, espande, tira fino ai limiti dell’esistenza incontrando non il baratro ma la gentilezza dello stare di fronte al baratro. Sia esso la vita, la guerra, il mondo o l’uomo stesso.

Un’operazione non molto dissimile a quella di un altro grande poeta italiano, che sappiamo non sta bene ormai da alcuni mesi: Mario Benedetti. Nel suo immenso Tersa morte (qui) anche Benedetti aveva preso tra le mani un momento molto breve, quello della morte, espandendolo per analizzarlo puntigliosamente, con una feroce sete di vita pur disincantata. Cosa che aveva già iniziato a fare anche nei libri precedenti (ad esempio qui – nota bene che con l’editrice di quest’ultimo libro, La barca di Babele, ha recentemente pubblicato anche un altro ottimo poeta, e amico, Giacomo Vit, che spero di recensire presto).

Ma Sergio Zavoli come detto non incontra la crudezza del baratro ma ne modula un gentil stare sulla soglia che non deve però trarre in inganno, perchè la vita è proprio lì di fronte, è assolutamente tutta lì di fronte con le sue dolcezze (Idina, / lascia che a me si arrossi il viso / e ti tolga, piccola Abele, / quel tramonto dagli occhi ) e i suoi terribili abissi (Oggi / esistiamo sempre più lontani / da noi stessi, conta di più la rete). Ma su tutto il poeta riesce a trovare una sorta di accordo nel pieno rispetto del significato del termine gentilezza, che come spesso dice un altro ottimo poeta (Luigi Natale) è sinonimo di incontro. Non a caso infatti Zavoli scrive che un’invecchiata pace guarda / quel granire dal cielo. / E mi riparo in ciò che accade. O quando parlando del poco della vita non può che ricordare l’odore del brodo quando già / dondolava la maestà dell’osso di ginocchio / comprato da mio padre.

Ma gli incontri hanno sempre una piega di difficoltà, un incontro mancato, un’attesa. E quest’attesa, questo incontro mancato, Zavoli lo trova in Dio in uno dei testi più significanti e forse (paradossalmente) polemici di questo libro: Noi parliamo di Dio quasi origliasse / per sapere che cosa ne pensiamo, / ed è arduo non nominarlo invano / specie da quando, irato, / ha scelto il suo nascondimento. Chiudendo tale domanda senza risposta con una domanda ancor più grande, talmente grande da includere il titolo stesso del libro e significare la poesia stessa: Chi scioglierà l’enigma del ritorno?
 
 
 
 
 
 
Le ragazze scrivevano
i nomi sulla sabbia
e con la mano cancellavano
in fretta i segniofferti
al rischio di un’ondata.
Chissà se sono stato
nelle storie vissute grazie a un dito
che scrive sulla rena,
se il gioco era un segnale per il dopo,
ogni nome una larva di qualcosa
o icone senza idee, solo graffiti.
 
 
 
 
 
 
 
 
Mi domando
da quale autunno venga
la realtà fuggente che mi attornia:
c’è un’aria risentita, scaldata appena dall’inganno
dell’ultimo garbino,e quasi mi addolora
il mare che comincia a imbiancare,
poi d’un tratto rigonfia, si solleva e ribolle,
trafitto dalla grandine.
Un’invecchiata pace guarda
quel granire dal cielo.
E mi riparo in ciò che accade.
 
 
 
 
 
 
 
 
Oh l’odore del brodo quando già
dondolava la maestà dell’osso di ginocchio
comprato da mio padre, quasi un polpo lunare
rilucente d’azzurro sotto il velo di polpa.
Dalla casa usciva quel sapore
di festa, mentre nei piatti contavamo il cibo
e la madre pareggiava il dovuto
aggiungendo o togliendo.
Il padre si prendeva la testa di gallina
col becco sforbiciato alla radice
rimirando la sfera che sbiancava
come i vetri in cucinae io scrivevo
col dito sulla brina.
Era come la vita, ruscellando
in rigagnoli brevi si fermava
davanti ai grumi d’acqua
in attese di altre colature;
e a volte mi pareva che vivere
fosse solo quel poco.
 
 
 
 
 
 
 
 
                A Valentina
 
La prova decisiva
fu il frugare nei nidi,
finchè non ti sfiorò l’odore
di una casa con le finestre aperte.
Scendeva il fiato dolce della salvia
dal rugoso velluto del suo verde;
e quello, ti dicesti, era il posto.
 
 
 
 
 
 
 
 
Vieni a trovarmi,
ora io posso dirti come fu
che quel giorno ilsole mi si spezzò
sul viso e non vidi che te.
Eri paziente e fiduciosa,
la voce scivolava tra i denti
simili al biancospino della siepe
in corsa su quel lato della strada;
forse volevi stare in faccia al sole
e io pensavo:resta dove d’imbanca
la tua mite bordura. Idina,
lascia che a me si arrossi il viso
e ti tolga, piccola Abele,
quel tramonto dagli occhi.
 
 
 
 
 
 
 
 
Ho rivisto lo squero,
cento carene crollano in fasciami
strappati ai loro chiodi
da barche luminose di resine e metalli;
ora si va dietro agli squali,
diritte cordigliere di coltelli,
i nostri erano viaggi a vista,
si diceva che il mare dà e si prende.
Oggi esistiamo sempre più lontani
da noi stessi, conta di più la rete.
 
 
 
 
 
 
 
 
Noi parliamo di Dio quasi origliasse
per sapere che cosa ne pensiamo,
ed è arduo non nominarlo invano
specie da quando, irato,
ha scelto il suo nascondimento.
Se si rivela solo nell’assenza
è ancora Dio o un indicibile demiurgo?
Ci terrà dentro un’ombra sconosciuta,
e silente?
Chi scioglierà l’enigma del ritorno?