In canto a te – Lucianna Argentino


In canto a te - Lucianna Argentino

In canto a te, Lucianna Argentino (Samuele Editore 2019, collana Scilla, prefazione di Gabriella Musetti).

Lucianna Argentino è ormai una delle poetesse più note anche se meno scalpitanti del panorama letterario degli ultimi anni. Riservata, elegante, mai impositiva ma comunque spesso invitata a eventi e incontri (si pensi all’ultimo: Nocera Umbra 2019). Una di quelle poetesse che lascia la parola più al verso che ai selfie. Recensita nei suoi libri precedenti dalle massime riviste del settore (ad es. la Lettura) ha pubblicato nel 2016 con La Vita Felice un libro fondamentale: Le stanze inquiete (una recensione qui). Uno sguardo al mondo da quell’al di là, da quell’altra parte della barricata che è la cassa di supermercato (non di rado, il supermercato, presente nei versi di alcuni contemporanei e meno, si pensi a Pellegatta quanto a Squarotti) che più del precedente (L’ospite indocile, Passigli 2012, una recensione qui, ma anche presentato a Una Scontrosa Grazia nel 2015, si vedano le foto – qui – e soprattutto il video – qui –) fotografa esempi di umanità e di compassione, di empatica consapevolezza che il confine tra il sé e l’altro è labile, spesso indefinibile, che la vita stessa è labile e indefinibile. E che le esperienze e le vite altrui si intersecano alle nostre in un magma (uso questo termine essendo non di rado la Argentino luziana) unico e straordinario, complesso, aspro ma vitale.

Si legga ad esempio questa poesia tratta da Le stanze inquiete:
 
E in ultimo ci sono io,
esercitata al bene e alla pazienza,
io con la mia vita stretta stretta,
con i miei tanti nomi,
io che osservo assediata
da centinaia d’occhi,
che nella speranza allevo parole,
io con i miei pensieri frantumati,
mandati a capo come una cattiva poesia.
Qui ogni minuto che scorre ha un volto diverso,
una diversa cifra, grani di un immenso rosario:
ognuno con la sua muta preghiera
o la sua muta bestemmia,
che poi è lo stesso se crediamo
ci sia un dio ad ascoltare.
 
da Le stanze inquiete, Lucianna Argentino
(La Vita Felice 2016)
 

Un modo di approcciarsi al mondo affrontandolo con gli strumenti del mestiere del poeta, che sono i suoi predecessori e contemporanei migliori. Pensiamo ad esempio alle poetiche di Alberto Toni, di Claudio Damiani, di Vincenzo Mascolo, esempi chiari di come sia necessario e indispensabile appoggiarsi alla letteratura per poter acquisire la stele di rosetta utile a comprendere il mondo, e poi dirlo con il proprio timbro. Perché la vita non basta viverla per capirla, o almeno al poeta non basta. Il poeta deve assumere in sé diversi punti di vista, diverse ipotesi di significato e di significante per poter comprendere una data realtà.

Possiamo infatti immaginare la vita come un fascio di luce. Noi ne vediamo il colore ma utilizziamo uno strumento, gli occhi, limitato. Lo studio e la somatizzazione delle altre poetiche rappresenta l’ampliamento della visione fino al non visibile (infrarossi, ultravioletti, eccetera). È la capacità di assumere e comprendere la realtà più piena. Anche se a volte questo significa uno schianto.

Lucianna Argentino ha moltissimi riferimenti ma, quello che evidentemente le è più caro, è la Bibbia. Già ne Le stanze inquiete leggevamo:
 
ognuno con la sua muta preghiera
o la sua muta bestemmia,
che poi è lo stesso se crediamo
ci sia un dio ad ascoltare.
 

In In canto a te tutto si muove in questa direttiva che è un filtro per comprendere l’amore fra uomo e donna, il rapporto fisico e sentimentale:

 
Riconsegno la costola a Dio,
offro la metà del mio cuore
per il nuovo innesto
così che i due siano davvero
una carne sola, un coro il battito,
consanguinei i passi del sangue,
congiunto il respiro.
Come con lui io
– noi corpo dell’Eden.
 

Tale filtro però non è solo un’attitudine, un ottimo modo di fare poesia, ma una necessità riconosciuta. Se in Le stanze inquiete il confine fra l’io e l’altro creava un cortocircuito complesso, un travolgersi nella vita che è una, in In canto a te il confine abbattuto è quello tra l’io e il tu arrivando a toccare una parte ancor più profonda e intima dell’io. Perché è un tu che riaffiora dal tempo, dal passato, portando in sé una sua e una propria vita fatta di errori, di cose rimaste in sospeso, di cose inaspettate:

 

“Aspettarono che fiorissero le rose, ma nulla fiorì. Persino le spine non furono vere spine. Erano smussate, non ferivano. Deludevano. Avessero graffiato, tagliato, con il sangue sarebbe andato via almeno l’amaro. Il tempo non guarisce, né ci sottrae nulla, semplicemente ci riconsegna tutto in altra forma. Lascia che i ricordi si accumulino, ma accade che, un giorno, un ricordo si fa strada tra tutti gli altri, vivo e palpitante, perché nell’anima il tempo non si consuma.”

 
 
[…]  
 

“Mantenne intatto il rimpianto; lo accudì ferendosi di nostalgia; lo nutrì di tutti gli errori commessi per distrazioni e incertezze; lo alleviò con l’odore di quanto con il tempo vi fiorì.”

 
 
[…]  
 
Perdonami
per non aver compreso allora
quanto profondo fosse l’amore
questo che ha attraversato
primavere renitenti e inverni caparbi
e approda ora alla nostra estate piena
con lo stesso volto
 
 
[…]  
 
Nell’assenza compresi quanta vita ci vuole
per capire il come e il cosa dell’amore,
ma quanti i battiti perduti, quanto il calore disperso.
L’imparai sottraendomi alla verità.
Riemerse poi. Lui lontano –
un nome reticente sulla punta della lingua.
 

L’io, l’essere umano (perché in questo caso non c’è distinzione tra io personale e io poetico), senza strumenti di navigazione non potrebbe affrontare il travolgimento di una vita che si ripresenta. Di un affrontare quello che è successo e soprattutto quello che non è successo, e la deflagrazione di quello che sta per succedere:

 
Abbiamo attraversato la notte in ginocchio
perché la misericordia divina
ci trovasse preparati per un nuovo impasto
e un respiro più prudente e giusto
ci fosse alitato nelle narici.
 
 
[…]  
 
C’è voluto tutto il tempo e una gelosa cura
perché il giorno in lui trovasse la sua voce
e una grazia acerba lo battezzasse col suo vero nome
vero sì, ma distante ancora.
Ancora nell’avvenire, ancora dove lo vorrei
pelle del mio abisso e di sconfinati dubbi pregarlo:
toccami, ricreami l’anima con le tue mani
 
 
[…]  
 
Scontata la pena da pagare
offro in sacrificio la decima del mio coraggio
per il riemergere di lui dalle carni
– dannazione e salvezza –
a testimonianza dell’indivisibilità di spazio e tempo
per me che l’ho aspettato
confidando di conoscere la mia verità
attraversando la sua.
 

Un rapporto sentimentale ritrovato che, a fronte dell’età matura (nel senso non più adolescenziale), si riscopre momento dopo momento e tocco dopo tocco. Il corpo resta centrale, le mani, ma sono parti fisiche di un pensiero, di un sentimento. Tutto diventa parte di una storia, di una riflessione che si incarna e può incarnarsi solo grazie alla comprensione data dal riferimento letterario biblico. Un riferimento che insegna il punto di contatto tra spirituale e carnale in tutta la sua passione:

 
Io sono l’agnello
e lui la lama cui offro il collo
il coltello per il sacrificio
a un dio che dimora nel mio ventre.
 
 
[…]  
 

“Assieme a lui ha imparato che se si sbaglia per amore è come la quiescenza vegetale dell’albero, in autunno, al cadere buono delle foglie. E chi dice che il vero amore non sbaglia si sbaglia perché l’amore ha un cuore divino, ma ha mani umane.”

 

E il riferimento, la necessità, biblica è tanto presente quanto fondamentale da assumerne dichiaratamente termini e istanze:

 
ed è volo radente – saliva e sudore –
la gioia feroce – la lotta e la furia
la rabbia pacifica – di essere due nell’uno
che sfugge all’amplesso.
Poi. La santità dell’abbraccio.
 
 
[…]  
 
quando sono malata
e curano il mio male nutrendomene;
quando sono prigioniera
e visitano la mia cella con passi impazienti.
La carità delle sue mani
infine adagiate nel nostro segreto vegliare.
 

Alla fine ciò che era stato perso e si è ritrovato diventa uno. Attraverso una serie di poesie e di prose poetiche si da voce a quell’estratto da L’arte della gioia di Goliarda Sapienza che apre l’opera:

 

E che dire delle nostre sere e notti? poterle fermare! Questo ritrovarsi soli, le mani nelle mani, gli occhi negli occhi, a raccontarsi impressioni, intuizioni, parole?
– Parlano tanto del primo amore, eh Marco? Mentono, come per tutto il resto.
– è così Modesta, anch’io non avrei mai immaginato, e purtroppo bisogna arrivare alla nostra età per saperlo. Hai visto oggi come ci guardavano quei ragazzi? Ho quasi avuto la tentazione di dirglielo, ma non mi avrebbero creduto.
No, non si può comunicare a nessuno questa gioia piena dell’eccitazione vitale di sfidare il tempo in due, d’essere compagni nel dilatarlo, vivendolo il più intensamente possibile prima che scatti l’ora dell’avventura. E se questo mio vecchio ragazzo si stende su di me col suo bel corpo pesante e lieve, e mi prende come ora fa, o mi bacia tra le gambe proprio come Tuzzo faceva allora, mi trovo a pensare che la morte forse non sarà che un orgasmo pieno come questo.

 

Il tempo scompare nell’atto, nel desiderio. Ciò è stato separato si riappacifica nell’unità:

 
Mi offro alla sua lingua
mentre la mia erige il suo desiderio
lava nella mia bocca
– lui Efesto a dimora nelle mie viscere
addolcisce il metallo di quanto in me non ha pace
e batte, batte il ritmo,
scandisce la musica composta
dai nostri strumenti accordati
fino alla sosta improvvisa che fa il respiro
quando la sua carne affonda nella mia carne.
 
 
[…]  
 
A che pensi?, si chiedono
quando i corpi tacciono
dentro una stordita pienezza,
i muscoli obbediscono alla nuova postura
e l’abbraccio si fa orizzonte.
A che pensi? e lei che scrive
chiude gli occhi, ascolta il dettato
ricrea la legge – ogni volta – nel silenzio
che tiene in braccio la parola come una sposa
attraverso la soglia dell’essere
per abbordare nel luogo in cui
carne e spirito sono una sola cosa.
 

L’unità, la pacificazione del tempo passa anche attraverso un equilibrio di voci che vuole l’oposizione del Monologo di lei (pag.33) al Monologo di lui (pag. 59):

 

“Da me ci sono orizzonti periferici dove il cemento dirada nel verde indifeso e impotente, ma mai arreso perché custodisce una vita antica. E le pietre testimoni di quel tempo stanno in ascolto di ciò che nel loro nascosto cuore risuona come io non sono capace. Non sono capace di far risuonare il mio cuore che pure è di carne e pulsa. Fosse fatto di pietra lo potrei tenere tra le mani e guarirei perché le mani conoscono il linguaggio di vuoto e di pieno di ciò che vibra nella materia, ma come posso adesso d’impensato gesto strapparlo da me e vivere ancora? E strappato a chi l’affiderei? Lui mi era stato lontano eppure mi scorreva nel sangue – fiume carsico di nostalgia – stava dentro un canto di parole assopite, racchiuso in un ricordo a cui arrivai di spalle. La sua voce, tornata limpida, viene ora a bonificare l’assenza, le sue mani a scolpire me nella forma transitiva dell’amore in questo tempo in cui s’avvera la leggenda di ciò che non è stato.”
(Monologo di lei)

 
 
 
 

“Ho imparato dalla pazienza dei cani a non avere lungimiranza, a stare nella forma della foglia – attimo dell’albero – dissipate le mie foglie in nidi, in pozze d’acqua o lungo i marciapiedi di strade percorse con la visione cieca di un mondo riflesso sulla retina nuda del mio cuore, infinito il suo coefficiente di assorbimento quando il cuore di lei si stende sul mio e il tempo proclama la sua resa all’eternità dei nostri corpi – luce fatta materia. Ho giocato a mosca cieca con la vita, ho cozzato come un insetto contro il vetro di giorni opachi e nelle mie cicatrici è fiorita una bellezza ferita che ho donato a lei quando è tornata ad abitare le mie stanze percosse dai venti, eccitate dall’odore della salsedine che spira dai miei polmoni. E lei, che ha cambiato il colore del mio sangue, di noi ha fatto il quotidiano da santificare, la festa nel tempo ordinario che separa e libera il nostro fare dalla compiutezza e lo lascia a un suo felice incompiuto essere.”
(Monologo di lui)

 

Che emblematicamente danno voce a uno dei testi più brevi ma significativi dell’opera (subito dopo il Monologo di lui):

 
Ci accorgemmo in ultimo
di quanto vicino fosse
ciò che credevamo lontano
io Achille
lui la tartaruga.
 

*

 

A che pensi? è la domanda chiave del penultimo testo della prima sezione omonima al libro. Una domanda che apre al concetto dichiarato di unità completa (dentro una stordita pienezza, / i muscoli obbediscono alla nuova postura / e l’abbraccio si fa orizzonte […] per abbordare un luogo in cui / carne e spirito sono una sola cosa) ma che affronta anche il problema della luce chiudendo con una dichiarazione che ha dello spiazzante:

 

“Potrebbe trovare infinite metafore per descrivere ciò che le accade, ma nessuna lo direbbe meglio se voi aveste la possibilità di guardarla mentre lo guarda. Sentireste il vento destarsi dal petto degli angeli e tutto sarebbe infinitamente più chiaro di ogni più chiara parola. Allora si mostrerebbe la sola preziosa lucentezza del mistero, tutto il suo sacro splendore.
Eppure tutta la sua non-luce.”

 

Un non-luce che va letta e interpretata alla luce (si perdoni il gioco di parole) di tutti riferimenti dati precedentemente:

 
Io nello spavento, nella teoria
fui giuda di me stessa allora
che non sapevo come può stare
nel nome di un’ombra
tutta la luce che lui ora riporta alla mia riva.
 
 
[…]  
 
tempo ordinario, senza freccia,
così commutano in noi vita e passione
e il raggio verde di questa luce mite
è soltanto l’aurora.
 
 
[…]  
 
Che il silenzio fortifichi
l’ardore del pensiero
e sia incendio al mutare delle stagioni,
chiarezza per la luce confusa
 
 
[…]  
 
Siamo punti coniugati
nella geometria di una stagione
i cui giorni si liberano un poco
dall’abbraccio della luce
perché ormai gli basta quel che ne resta
 
 
[…]  
 

“Scese dal treno senza sapere dove andava. Si affidava all’intelligenza dei suoi passi che, legati alla terra, ne conoscono le parole sotterranee da trasformare in zuccheri nella fase oscura del pensiero per il nutrimento dell’anima tornata alla luce.”

 
 
[…]  
 

“Ho imparato dalla pazienza dei cani a non avere lungimiranza, a stare nella forma della foglia – attimo dell’albero – dissipate le mie foglie in nidi, in pozze d’acqua o lungo i marciapiedi di strade percorse con la visione cieca di un mondo riflesso sulla retina nuda del mio cuore, infinito il suo coefficiente di assorbimento quando il cuore di lei si stende sul mio e il tempo proclama la sua resa all’eternità dei nostri corpi – luce fatta materia.”

 
 
[…]  
 
Ne vidi i segni nel suo sguardo di lupo
tra bagliori di muschi e di licheni
e la luce dei tramonti nella steppa.
 
 
[…]  
 
Mi abbandono a lui quando spinge e spinge,
oltre e più oltre il piacere
e liberiamo il corpo dall’anima
del corpo facciamo una perla di purissima lucentezza
un tempio di perfettissima innocenza.
 
 
[…]  
 
ma in controluce sulla foglia dei suoi occhi
leggo la buona novella e il sorriso mai arreso
di lui che ha un cuore buono e mani grandi
pratiche del con e del senza.
 

La chiarezza della pienezza acquisita, della scoperta, dell’amore che attraverso mani e corpo esprimono ciò che è stato, che si è perduto, che si è ritrovato, entrano in maniera importante in quello che per l’autrice è un’ulteriore spiegazione dell’amore ritrovato e rivissuto.

In canto a te si conclude con Eppure tutta la sua non-luce che ha in sé il peso del passato, della sua consapevolezza. E apre a Il poema della luce o del tema della ricorrenza che viene introdotta da due testi particolarmente significativi.

Il primo è una nota a margine del titolo: Il teorema della ricorrenza stabilisce che nell’evoluzione di un sistema dinamico che ha uno spazio delle fasi limitato, il sistema può trovarsi in uno stato arbitrariamente vicino a quello di partenza dopo un tempo sufficientemente lungo. Una sorta di spiegazione di quel tempo intercorso. Il secondo è una citazione di Jacob Moles che afferma: La vita è aria tessuta / con la luce.

La spiegazione della ricorrenza, dell’amore ritrovato, riscoperto non solo in quanto lui ma anche in quanto amore, vivo di un’ulteriore definizione amplificata (si ricordi l’immagine data all’inizio di questo articolo sulla luce visibile e sullo spettro più ampio che in realtà compone la luce), la Argentino decide di darla cambiando stile, affrontandone la spiegazione con un racconto.

Il Poema della luce è un lungo poemetto che racconta l’incontro dei due:

 
Dal treno la rivincita sul tempo
non la credeva e nemmeno sul rammarico
perché di rado se n’era visto uno sparito così,
semmai addolcito, eppure quello, adesso rinverdito,
la esortava: guardami gli anni mi hanno cambiato,
ma so che tu mi riconosci, che non mi hai dimenticato.
Ma lei – quella in carne ed ossa – era la stessa? E lui?
Di vita ne è passata, si dissero e se la raccontarono
a Milano, senza bagaglio, mano nella mano,
lungo i viali del Castello Sforzesco.
 
 
[…]  
 
Credevo di non avere scelta, confessò lei l’autoinganno.
Il prezzo per la revisione della storia le lacrimava dentro
e stava come la luce quando cede in grani
il suo potere all’ombra che, pentita, eppure avanza.
E avanzavano loro attraverso il dialogo simmetrico
tra l’ape e il fiore in una ricomposta visione
lungo parole a lungo senza voce
 
 
[…]  
 
La pazienza sdrucciola di lei
portata al quorum da una moltitudine di segni
teneva a bada il dubbio e l’inquietudine,
correa la probabilità congiunta che un tu e un io
commutassero in un imprevisto noi.
Che dici è grave se ti penso?, le scrisse lui.
Spero di no perché ti penso anch’io, gli fece eco lei sgomenta
dei cigolii sospetti nella struttura intera della sua biografia.
Prese velocità di rifrazione la luce
viaggiando dal Lazio alla Lombardia e viceversa
 
 
[…]  
 
A Pisa la luce avanzava impudente sul lungarno,
risaliva gli argini, umida cantava inni e versi lunghi,
ma in un lampo si trasformò in materia
– combinazione di amore e di sesso –
ruppe la simmetria di loro ancora presi alla difficile misura.
 
 
[…]  
 
Di spalle viaggiava verso Roma
i binari due rette parallele nella dinamica del caos.
Ci correvamo incontro, le aveva detto lui
abbracciandola forte davanti alla stazione
e nell’anima lei respirava il fiato grosso di quella corsa,
ne cercava il senso dentro l’improbabile essere del mondo,
la trama del disegno senza avvertire il peso della matita nella mano.
Siamo sistemi dinamici instabili, pensò
in controcanto a quella voce fuori campo.
 
 
[…]  
 
Lascia che io dimentichi ciò che senza noi non è stato,
veglia sul mio sonno e poni rimedio al danno,
pregò lui il dio degli incompiuti.
Ti aiuterò a dimenticarlo, ma non te lo lascerò scordare,
offrì lei il suo corpo terreno per la cova di quel miracolo.
 
 
[…]  
 
E guarda, aggiunse abbracciandolo, come ogni cosa
si coniuga al suo mistero e come la bocca può essere uno scrigno.
Sconfinò in lui il regno che lei gli porgeva
s’avviarono così, con una corrente di risacca alle caviglie,
lungo un’altura ancora senza nome ma, istante dopo istante,
battezzata da una luce futura e in quel cammino di poco lui la precede
e senza guardarla le tende la mano.
 

Una chiusa di particolare intensità dove la Argentino suggerisce una definizione d’amore piena, matura. I due amanti infatti non si guardano più ma insieme guardano una luce futura, quasi a dire che la destinazione del viaggio e del tempo nell’amore non è l’altro, ma un qualcosa a cui tendere assieme nella certezza della presenza dell’altro.

Gabriella Musetti, in prefazione e in riferimento a questa seconda parte del libro, sottolinea in maniera interessante che:

 

“Questa narrazione autobiografica in versi con le voci autonome e alternate in un dialogo immaginario, mette a punto una situazione, rivela le impurità della esperienza concreta di vita, i grovigli dei dubbi e delle illusioni, le forme dei risarcimenti e delle penitenze, e sembra una necessaria compensazione o controcanto, più che una spiegazione, della parte prima del libro, incentrata su un cantico di gioia pura, un’estasi senza compromessi o remore, come un pensiero che arriva ai confini del sensibile.”

 

Un’esperienza amorosa quindi composta non solo dal bene, dalla luce, ma anche da grovigli, dubbi, risarcimenti e penitenze che dicono un sentimento concreto e non idealizzato. Fatto di ricorrenze necessarie perché, spesso (come una cara amica mi disse un giorno e che mi piace qui citare), l’amore fra due persone è anche conflitto, abbandono, tradimento e riconciliazione alla luce della sua necessità quando il vero problema si esaurisce, sia esso un senso di prevaricazione o altro (qui, l’altro, è la vita stessa e i suoi accadimenti che poi portano alla ricorrenza come scoperta di una possibilità nuova intrinseca nella vita stessa).

Un’interpretazione dell’amore non solo attraverso l’estasi ma riconoscendone la complessità. La gravosità data dall’essere umani. E che può, e in questo la metafora biblica è fondamentale per capirne a fondo il significato, acuirne esponenzialmente l’estasi, l’unità e l’unicità.

 

*

 

Un libro, questo della Argentino, che si inserisce in un filone particolarmente fertile negli ultimi anni e che succede a titoli di chiara fama come Le tentazioni della luce di Zingonia Zingone (Edizioni della Meridiana 2017, una recensione qui) e Il libro della memoria e dell’oblio di Marina Giovannelli (Samuele Editore 2013, il video della presentazione con Antonella Sbuelz qui).

Si leggano infatti alcuni estratti della Zingone:

 
lui sospirava
senza sapere perché
 
poi venne l’amore dei corpi
che colmava le lagune
con acqua salata
distribuiva pani e pesci
si credeva una noria
 
un giorno
il pozzo si seccò
i pesci
mangiarono i pani
 
aveva ragione colui
che scalzo saliva la montagna
senza sapere perché
 
 
[…]  
 
i miei occhi pieni
del tuo volto
 
i palmi giunti
in preghiera
 
la tua voce
colma le mie cavità
 
ti amo
dell’amore mistico che incarni
 
la forza del tuo braccio
infiamma l’aria
                mi stringe
il silenzio assorto
del mattino
 
mai
così alto desiderio
 
 
[…]  
 
c’è nelle tue parole
dolcezza
 
una carezza
che avvolge il mio stupore
e apre la sera
all’immensità
 
la tua trasparenza carnale
ipnotica
mi riporta al primo uomo
 
non voglio più
essere un serpente
 
uomo o angelo
cosa importa
è la luce
il mio turbamento
 
da le tentazioni della luce, Zingonia Zingone
(Edizioni della Meridiana 2017, prefazione di Andrea Ulivi)
 

Zingonia Zingone affronta l’amore con un affondo luminoso nella carne, sfioratamente mistico, divenendo epifania e preghiera attraverso la luce. Un timbro, una voce e un’esperienza diversa rispetto a quella della Argentino ma che ne condivide alcuni punti fondamentali. Un percorso che forse in Zingone è più volontario rispetto a quello della Argentino (che è più di stupita scoperta) ma che tange sempre la luce, lo svelamento di una realtà da accettare.

Marina Giovannelli invece, pur trattando saltuariamente anche lei di luce, ha con la Argentino in comune il concetto di viaggio (in Giovannelli un viaggio mitologico, in Argentino un viaggio temporale che implica una riflessione sulla ricorrenza, assente in Giovannelli):

 
non credere di attraversarmi
come una luce
muraglie di calcina opaca
resistono agli sguardi
negli angoli fioriscono
oscure profezie ritorni
inappellabili
schegge sonore
frantumano orologi
 
i giorni svaporano di cenere
 
 
[…]  
 
non è il tempo che passa
sei tu che passi
da giardino a sera
attraversando
navighi a vista
timorosa d’abisso
incerta d’infinito
tra velari di stanze
distese di papaveri sognate
araldici silenzi
 
e all’improvviso non è più il tuo tempo
non è più la stagione
altri volti altri quadri alle pareti
e il rintocco ovattato della sera
 
 
[…]  
 
ogni giorno l’assente
irradia la sua presenza
vapore che non distilla
sulla pelle rovente
 
cipria di rimandi e assonanze
riveste le pagine consunte
con certezza di luce
nel fermo mezzogiorno
 
da Il libro della memoria e dell’oblio, Marina Giovannelli
(Samuele Editore 2013, prefazione di Antonella Sbuelz)
 

In Giovannelli il viaggio di Ishtar (la figura mitologica che rappresenta la poetessa) diventa metaforicamente il viaggio di riconciliazione con un tu perduto attraverso la spogliazione di sé. A ben vedere in Giovannelli si può intravedere il desiderio di ricorrenza espresso dalla Argentino pur non conclusosi, o almeno conclusosi in maniera differente (in musica e con la scoperta che la spogliazione è il vero traguardo del viaggio iniziato per amore).

 

*

 

Lucianna Argentino firma un’opera importante che meriterà, in uno spazio ben più ampio di questo, uno studio approfondito e una maggiore contestualizzazione per capire come i poeti e le poetesse oggi stanno ripensando l’amore, il tempo della vita. In un cammino che affonda in un’enorme letteratura capace non solo di dare linfa ai versi ma anche di aiutare l’interpretazione dell’esperienza.

Di più, forse, non si può chiedere a una poesia che sia vera e concreta. Di aiutare l’interpretazione della vita. Come in questi versi della Argentino, apparentemente semplici ma profondamente definitivi:

 
Ma questo tempo ora
eredita nuove terre e nuovi cieli
dove il nostro corpo è la casa e la partenza
e noi il cammino e il ritorno.
 
 

Alessandro Canzian