I compianti – Maria Pia Quintavalla

compianti

Maria Pia Quintavalla è una poetessa milanese (ma nata a Parma se non erro) che per diversi motivi incontro qua e là agli eventi e alle rassegne letterarie. L’ultima volta era a Duino, alle Residenze Estive della comune amica Gabriella Musetti. Il libro da cui traggo alcuni testi ad esempio della sua poetica è I compianti, di Effigie Editore (2014). Un testo che non nascondo ho difficoltà a presentare per diversi motivi.

Il primo fra tutti è appunto l’amicizia e la vicinanza con Gabriella Musetti, che ho recensito alcune settimane fa (qui) sottolineando il dato femminile del libro. Quella recensione, piaciuta (probabilmente poco) all’autrice, mi è valsa dalla stessa anche alcune buone critiche tra le quali l’erroneità del dato femminile che inserivo come traduzione possibile dei versi. Questo mi mette in imbarazzo anche con Maria Pia Quintavalla, che quando si riferisce alle sue colleghe poetesse le appella col termine sorelle e che nel libro mi sembra percorrere tutte quelle esigenze e quelle dinamiche femminili, prettamente femminili, della donna, che mi sono valse le critiche di cui sopra.

Ma chi vi scrive non è certo un letterato professionista o un grandissimo conoscitore della poesia, solo una persona qualunque che a volte scrive versi e qualche altra volta pubblica versi di amici, o di persone che hanno qualcosa da dire. Per cui non mi piegherò alle ragioni (probabilmente più spesse delle mie) che vogliono l’analisi staccata dall’essere donna dell’autrice e sottolineerò quello che a me, onestamente e forse ingenuamente, è parso di questo libro.

Il titolo, Compianti, obbliga a un minimo di ricerca. Il compianto è, come aggettivo, ciò che è oggetto di pianto, di dolore, per lo più riferito a un defunto. Come sostantivo invece acquisisce il significato di pena, di dolore collettivo. Comunque un termine che indica un dolore dell’anima. E già qui non posso non riconoscere il dato più pregnante della foza femminile: il suo cioè saper soffrire, saper contenere dentro di sé il proprio e l’altrui dolore. Se poi andiamo a vedere la quarta di copertina leggiamo: Attraverso le stanze della casa paterna, di una strada di una piazza di una città, si svolge il rito del compianto sulla morte del padre. I fondali di scena sono testimoni, come nella pittura e nel teatro, delle voci impegnate a dialogare fino all’ultimo, di un padre e di una figlia, nell’intimità dei loro affetti, unica guida al viaggio; ma gli affetti hanno un corso sinuoso e ritorni, come i versi. Del montaggio delle voci sono garanti i luoghi, che si fanno coro. Come nel mito l’eroe deve discendere agli inferi per poi ascendere al paradiso, un «Gesù convinto di parole». In appendice compaiono scritti di lui, scampato alla morte nel campo di prigionia, Stalag XVII A, quando si fa strada il sentimento della speranza, nella riscrittura de Il Rigoletto, dove rivive la sua voce di suggeritore di scena, e la «canzone del prigioniero, che incensurata si scolpiva nel cuore». Intrecciando così quel rapporto privilegiato (di presenza o talora d’assenza) che da sempre segna la donna/figlia: il rapporto col padre.

Allo stesso modo all’interno del libro leggiamo: Ispirati al tema dei compianti: “Compianti su Cristo morto”, dipinto da Antonio Allegri, detto il Correggio, 1524, Pinacoteca nazionale di Parma e “Compianto in terracotta” scolpito da Guido Mazzoni, 1477 Santa Maria degli Angeli, Busseto. Universalizzando così (di una poetessa parliamo) il proprio male dandogli significati che vanno oltre la propria semplice individualità e storia.

E il tutto, questo complesso sistema di riferimenti, indica che il titolo e il termine Compianto non ha un significato solo ma ne è tutta la sua moltitudine contemporaneamente. Sottolineando ancor di più che questa non è una visione del mondo qualunque. E se poi leggiamo il sottotitolo Passeggiata con Correggio capiamo che questa moltitudine di significati e di cose non sono ferme, ma passeggiano. Con chi? Con un pittore morto nel 1534.

Ma un pittore. E se allora andiamo a riflettere un poco su questi personaggi, che fanno del libro un vero e proprio palco teatrale, ci rendiamo conto che il pittore è proprio la necessità che muove la poetessa nella complessità dei suoi compianti (che non sono rimpianti, attenzione). Perchè il pittore incide, lascia, fotografa pezzi di vita caricandoli di colori che ne trasmettono le vite, le emozioni, i desideri, i sensi anche. Portando la poetessa a cogliere e riproporre quei medesimi colori filtrati attraverso se stessa.

E da questo inizia il percorso poetico, un fiume sotterraneo che mi ricorda la Poesia ininterrotta di Eluard per il suo flusso di coscienza che si porta in carico la vita, l’esperienza, e i desideri. Non ha infatti importanza quale pagina si apra, o dove si cominci a leggere i versi. L’esito è sempre quello di un discorso che non sappiamo quando è cominciato ma che sentiamo essere sottovoce, continuo, un sussurro. Perchè la donna sussurra, accompagna con una voce che non è mai silenziosa ma non vuole gridare. E la donna poetessa Maria Pia Quintavalla assume in sé questo sussurro e lo incide sul foglio, aiutata da un’eccezionale capacità di creare equilibrio: (io, che il tempo lo fermavo / forse lo disdicevo, se avessi potuto / avrei dato a ciascuno un po’ di tempo).

Ma quali sono in effetti queste vite, queste emozioni, questi desideri, questi sensi? I Compianti ce lo dicono chiaramente: sono la forma. La poetessa prende in grembo la storia umana e la storia personale rapportandosi così a una nobiltà d’essere, un’aristocraticità che diventa tale nel momento in cui affronta la tragedia ma con un velo di trucco. Ecco, questi versi a me paiono il velo di trucco della donna che ha conosciuto le morti, della donna che sa che la poesia non è la bocca che parla ma l’insieme del rossetto e della bocca che ha parlato e che parla e che ha baciato e che bacia. Il tutto per creare una carezza al lettore, un’armonia che è la forma di questi versi, il vero punto a cui tende la poesia ininterrotta di Maria Pia Quintavalla. (Lui, il capo reclinato. Lei senza fiori / ma sorrideva angelica)

Perchè una donna conosce a fondo la tragedia del mondo e la affronta abbellendosi, e così facendo abbellisce il mondo. Tanto più una poetessa che in quanto tale è capace di passeggiare non solo nella geografia ma nella completezza del suo tempo. Creando così la Poesia che sola è capace di ricordare che la bellezza continua ad esistere nonostante tutto, e che questa bellezza si declina in delicatezza, in morbidezza, in verità, in Storia, in Poesia. Necessaria.

 
 
 
 
 
 
Più in là del Po
 
1)
 
Ma, nel venire a trovarti,
d’un colpo tutto rifioriva
sgorgava in verde era là pronto,
diritto all’orizzonte,
come (due) pratoline tintinnavano le teste
prima io poi tu, corali
garruli chiacchieravamo di crescita felice.
 
Tu,
una mano chioccia si chinava sul figlio,
io, la piccola acquietata, o rintuzzata
anche da bagno rinfrescante;
non mi ero forse mai mossa da lì, la buca
del pulcino il seno il lago
dove incipitava l’infanzia,
correndogli la testolina, ne eseguivo
il singulto dell’essere all’aperto.
 
Il mio dito segnava ondulazioni, il suo additava
redarguendo, il senex
contendeva al puer più piccolo la sedia.
Aveva seppellito dentro sé scintille,
il padre, senza positura
di attese angeliche, amoroso
mostrarle alfabeti della vita, a calmarla
parlando a lei nei sogni,
la qualità la luce del contatto.
 
 
 
 
 
 
2)
 
Il suo cuore intonava motivetti,
il mio suonava un ballabile a volte un sax
discreto, acuto: il sigo,
lo chiamavano nella mia terra.
Un giorno uscivamo per una passeggiata,
l’altro, una conferenza; esulavamo
da marciapiedi abituali,
ma esultavamo anche nelle rispettive mani
scegliendo costeggiare ciascuno la sua riva.
 
Lontani i tempi di corride,
dove le banderillas venivano tirate agli occhi
a ferire piano.
Se ti avessero portato
più spesso alla campagna, contro la vischiosità
del sangue che stagnava,
in pose dei giardini
nello statico sedere a casa,
se lo avessi prevenuto il movimento
retrogrado del sangue che coagula al coperto,
e fuori da ogni cosa,
lieve di giovinezza il viso che sporgeva,
col naso e bocca sempre in ghigno
io, che il tempo lo fermavo
forse lo disdicevo, se avessi potuto
avrei dato a ciascuno un po’ di tempo.
 
 
 
 
 
 
Non si può rinunciare alle parole,
lui diceva, Non possumus,
e il gesto suo faceva arte.
Come lavarsi via la polvere,
captive notizie tacitate.
Non ho l’abbigliamento adatto,
redarguiva,
pagava le tasse del dolore poi,
non le pagava più.
Spazzava ogni giorno la cantina,
poi non la spazzava più;
non le cose rimaste deflagrava, ma
era sangue rappreso, era la polvere.
 
 
 
 
 
 
Cosa feci quando portai la cinepresa,
recai l’ultima fiamma guizzo
al posto di quell’altra, l’ossidrica, che chiuse il tutto;
forse pensavo salutare in modo tecnologico,
come si portano fiori il giorno della sepoltura
i giorni dopo i mesi, gli anni
ma non si va volentieri al commensale,
se non c’è la conferma di speranza e pace.
 
 
 
 
 
 
L’età moderna
È sorella rinata dalle ceneri,
bisogna che io parli di Fabiana:
rinata là, mi aspetta
nella casa dove ha vissuto il padre,
ha taciuto di lui mi ha accolta –
accucciata a terra poi, Sono qui,
vengo a prenderti, ristorati –
la tua casa e la mia sono nate
qui stesso s p a z i o, sogno lo stesso,
sosteneva i suoi occhi
prima di morire.
 
 
 
 
 
 
C’è tepore dove la donna ha procreato
amato e perso i suoi bambini,
i ritratti piccoli la salutano
fulgidi ogni giorno.
Lei si alza pigra, ci prepara il caffè
parliamo –
poi stiamo ore a rimirare la beltà
e la luce, in dolce sfondo
esplodono piccole nicchie ombrose
dai cespugli del San Paolo.
 
 
 
 
 
 
Cos’è il paradiso
 
Poi, cos’è il paradiso?
Un succedersi a riparare colpe,
un evolversi sciogliendoci in stagioni
(dove non eravamo stati).
Al buio li trovai, nella liquidità,
lei senza luna e insegne,
lui, il capo reclinato. Lei senza fiori
ma sorrideva angelica –
una dalia rossa le portai, unita
al puffo del crisantemo.
 
 
 
 
 
 
Non è voce la tua che canti il male,
nella danza cannibale di fondo
quella pentola brucia da più secoli,
senza che al brodo corrisponda
la carne abbrustolita sembra
fuoco d’inferno, ma è impostura
specchio segreto di paura di tutti
e di nessuno. Ha nome invidia, panico folle
abbandono di senno, non pietà e
paura, ancora e sempre stolida
paura che divide e fomenta,
che tortura.
 
Lascia tutto all’aperto, vai pure via lontano,
in Egitto al capanno dove
più Gesù e Marie non furono predati.
Salva la voce, fuggirai l’esilio, persecuzioni
non sentirai, proteggiti difendi
il solco della voce,
difendi te piena di istinto
che ti mise al mondo,
poi più tardi oblia, sbiadisci i passi
di chi poté o non volle più capire.
 
 
 
 
 
 
II)
 
Stiamo facendoli i saluti piano,
il treno immobile rallenta
circostanze diverse somiglianti,
le gite scolastiche, le smaniate
dell’adolescenza rossa di emozione,
che gesticola nel vento abbraccia i visi
ingoia gli altri senza sapere
di quell’intimo botto,
il crac finale che a v v a m p a
c h i u d e in crepitio insonoro
di ogni via le storie.