Giorgio Bárberi Squarotti


 
 
Barbara, la commessa
 
– Sono Barbara: ah, non la straniera,
e neppure la fiera sanguinosa
ch’esca dal bosco e insegue cervi e verri,
ma la commessa (bionda, sì, e mi dico
anch’io bella, se furtivamente
mi specchio nella vetrina, quando entra
a comprare una donna come me,
alta ugualmente, e faccio il confronto,
immaginandomi lì nuda, dritta,
enigmatica un poco e sorridente
per il trionfo certo, come quello
di Diana sulle dèe fotografate
al mare, sulla conchiglia, in cima
a Diano o al Citerone, in discoteca).
-Soltanto? E tu citi nomi divini!
Ma chi credi di essere? Non sei
mai stata in altro mare che a Loano,
in quella bagnarola dove vanno
proprio tutti i torinesi ad agosto.
Tu con frecce e nei boschi cacciatrice?
Tu che sfidi correndo sulla spiaggia
il vento d’Eolo e l’onda di Cariddi?
Ma tu non sai fare altro che contare
i pacchetti che davanti ti mettono
i clienti, e battere gli scontrini
e dare il resto della vita, e a sera
ascoltare il padrone che ti sgrida
perché sei lenta e poi perdi troppo
tempo a lisciarti i capelli, a passarti
sulla bocca il rossetto, a sistemare
la troppo breve gonna sul tuo trespolo
(e in quel momento con violenza s’apre
la porta del negozio. -Finalmente,
Arianna, ti ho trovata, vieni, fuori
c’è pronto l’elicottero, ti porta
nell’isola di Nasso, dove sono
dio. Sbrìgati, non hai bisogno di abiti
su quella riva candida di rena,
come tu candida sei. Terrorizzata,
con un filo di voce riesce a dire:
-Io sono Barbara, solo una serva,
altro che il nome così dotto, quello
della figlia di re. Quello che dissi
è un’invenzione, un gioco, perché quasi
nessuno bada a me, con il grembiule
a righe rosse e azzurre). È afferrata
e sollevata in alto, e in basso vede
ormai lontane le compagne, irata
la direttrice e minacciosa, e intorno
al motore e alle pale tralci, grappoli
di gonfia uva viola, la pantera
accucciata, che la guarda ridente
e incomincia a leccarle i fianchi e il petto.
 
 
Chambéry, 23 aprile 2010