Giancarlo Pontiggia

Bozza automatica 1627
 
 

Michele Paoletti intervista Giancarlo Pontiggia

 
 

Giancarlo Pontiggia, milanese, ha pubblicato le seguenti raccolte poetiche: Con parole remote (Guanda, 1998), Bosco del tempo (Guanda, 2005) – entrambe riedite nel volume complessivo Origini (Interlinea, 2015) –, Il moto delle cose (Mondadori, 2017). Per il teatro ha scritto Stazioni (Nuova Magenta, 2010) e Ades. Tetralogia del sottosuolo (Neos, 2017). Saggi di poetica e riflessioni sulla letteratura si trovano nei volumi Esercizi di resistenza e di passione (Medusa, 2002), Lo stadio di Nemea (Moretti & Vitali, 2013), Undici dialoghi sulla poesia (La Vita Felice, 2014). Traduce dal francese (Sade, Nerval, Mallarmé, Valéry, Céline, Supervielle, Bonnefoy) e dalle lingue classiche (Pindaro, Sallustio, Rutilio Namaziano, Disticha Catonis).

 
 

Come nascono le sue poesie?

Nella poesia che amo è un ardore nascosto che sfugge a ogni disegno preventivo: qualcosa che intuiamo, che preme dal fondo della nostra mente, quella più arcaica e celata, e in cui si rispecchiano le indisciplinate energie del mondo (il mondo che siamo, che è in noi, non fuori di noi), e che però non sapremmo restituire se non nelle parole della poesia: le «parole prime, scure, / che dicono sì e no, che oscillano / tra le cose» di una poesia del mio ultimo libro. In quell’oscillare, in quel dire «sì e no» è tutta la forza del poetico, quel suo sapersi immergere negli strati profondi della lingua e del nostro essere, cavandone il senso irriducibile della vita, che è poi l’oggetto centrale di ogni mio scrivere.

Eppure niente si dà senza una preparazione, una disciplina dell’attesa, un esercizio costante del pensiero: perché una parola possa pescare qualcosa nel profondo di noi, bisognerà aver molto letto, sentito, vissuto, pensato, amato, viaggiato, contemplato. Allora, all’improvviso, sentiremo l’urgere in noi di qualcosa che era necessario, che si è sedimentato a lungo, attingendo a una sapienza molteplice, libera, in cui si manifesti il respiro delle cose del mondo.

Nella mia personale esperienza, ogni poesia è come una colata unica, di cui non saprei dar conto nel momento in cui si produce: nasce quasi da sola, senza che io debba far niente, ma è come se portasse in sé un universo di memorie e di pensieri, di forme e di segni che premevano da tempo, e alle quali, se così posso dire, mi ero da sempre preparato.

 

Parliamo de Il moto delle cose (Mondadori, 2017), una raccolta che si interroga molto sul rapporto tra l’uomo e il tempo e che arriva dopo quasi 12 anni dalla sua ultima raccolta Bosco del tempo (Guanda, 2005) [nel frattempo confluita insieme a Con parole remote (Guanda, 1998)  in Origini (Interlinea, 2015)]. Com’è nata? Qual è stato il percorso di scrittura?

La fascinazione del poema didascalico di argomento fisico risale agli anni della mia giovinezza: il primo volume della «Lorenzo Valla» che acquistai – era il 1975 – fu il Poema fisico e lustrale di Empedocle curato da Carlo Gallavotti, con quel suo linguaggio drammatico e immaginoso, denso, anfibologico, dove il poeta prometteva di dimostrare «in qual modo avvenga che, mischiandosi acqua e terra ed aria e sole, / si producano le forme e i colori degli esseri mortali, / e le fiere e gli uccelli e gli uomini e le donne, / e in quale modo anche gli alberi grandi e i fuselli marini» (fr. 18 G.). Mi colpiva, in questo poeta che ambiva a legare il destino dell’uomo al respiro del cosmo, il dinamismo delle forme e dei pensieri, la capacità di far sentire la natura metamorfica del mondo: «Perché ci fu anche un tempo che sono stato un giovane e una ragazza, / e un virgulto e un uccello e uno squamoso pesce del mare» (fr. 104 G.).

Può, un poeta contemporaneo, che venga dopo la rivoluzione scientifica del Seicento, e dopo i grandi studi di astrofisica del Novecento, aspirare a qualcosa del genere? Tutto congiura a dire di no, anche se la storia della poesia è lì a dimostrare che niente è impossibile: chi avrebbe potuto immaginare, intorno alla metà del primo secolo a.C., che si potesse comporre un grande poema mitologico in concorrenza con quelli omerici? Probabilmente perfino il giovane Virgilio, quello dello splendido, tenerissimo Catalepton 5, lo avrebbe negato.

In ogni caso, è proprio dalla nostalgia di un poema impossibile che è nato Il moto delle cose, al centro del quale è «un mortale, uno / come te, che respira, che sente, / che alza / gli occhi in su» (Scale), che si apre dunque alla visione del mondo: e lo fa non più nella tradizionale certezza di un’armonia, di una centralità dell’uomo nella vita cosmica, ma, al contrario, nella sgomentevole percezione di un universo che si espande a dismisura, e in cui la Terra è solo un pianeta insignificante alla periferia di una delle sue tante, disperse, fuggevoli galassie.

I Tre prologhi che anticipano la materia del libro, pongono da subito le tre prospettive che agiscono –intersecandosi liberamente – nel cuore della raccolta: nel primo (Sovrastino, su queste sabbie), è «il respiro / possente, luminoso / del mondo»; nel secondo (Pochi versi, ma veri), la dimensione raccolta, quasi celata e protetta, dell’animo, quando ci rifugiamo in noi stessi alla ricerca di una verità di ordine morale; nel terzo (O tempo), è l’opera del tempo, còlta nella sua astrale, delirante vicenda cosmica.

 

La raccolta si apre con Un’apparizione che ricorda quasi il fantasma del padre di Amleto. La visione di un’ombra funesta che non dà risposte bensì chiede qualcosa / che valga la pena. Questa esortazione si può estendere anche al fare poesia? Scrivere, e dunque dire, solo quando ne valga veramente la pena?

Sei entrato, con questa osservazione, nel cuore di tutta la mia scrittura, e non solo di questo mio ultimo libro: la poesia, da sempre, ma tanto più oggi, in una realtà sociale dominata dal principio di falsificazione (un principio che sta toccando la materia stessa del poetico, come dimostra l’equiparazione, ormai diffusa, fra canzone e poesia), deve ubbidire a un criterio di verità e di essenzialità, come se la parola della poesia nascesse da un’urgenza, da una necessità imperiosa del cuore e della mente.

Il libro inizia dunque, ancor prima dei tre prologhi, con l’apparizione di un’ombra che pone la questione del dire stesso; e lo fa venendo dal regno oscuro delle ombre, da un mondo in cui non è più permesso mentire: «di’ / qualcosa che valga / per me, per noi, che ti guardiamo […] / qualcosa / che valga la pena». In quell’appello, ho sentito l’esigenza di un verso che non potesse più esimersi dal porre le grandi domande di sempre, che sono quelle della filosofia, ma che in poesia devono inevitabilmente caricarsi di tutto ciò che sfugge a un ordinamento chiaro, razionale delle cose del mondo, immergendosi nella fluttuante, magmatica materia dell’universo.

In che cosa possa consistere, poi, questa lingua, è in qualche modo accennato, per frammenti, nella sezione – Stanze della mente invasa – forse più schiva, quasi ritrosa, appartata, della raccolta: tre frammenti di cinque, quattro, cinque versi dove si parla del farsi stesso della poesia, di quegli improvvisi barbagli che si accendono, inesplicabilmente, «nella roccia della mente», quasi sfidando la durezza, la rigidezza del nostro stesso pensare.

 

Ne Il moto delle cose è molto presente anche una componente materica che richiama all’origine magmatica del mondo e delle cose.

Credo che il libro viva in una costante dialettica fra materia e spirito: dove per spirito intendo quel ritrarsi in se stessi come in uno spazio di immaginosa libertà, di indipendenza dalle leggi stesse dell’universo fisico. Non importa se illusorio: reale, visto che è possibile pensarlo, e che agisce su di noi al punto da promuovere una nuova visione del mondo, dando vita a quel fantastico registro di miti e di favole, di rigeneratrici palingenesi cosmiche che accompagnano la vicenda umana fin dai suoi primordi.

Nondimeno, la tensione immaginativa di cui si nutre Il moto delle cose è nel suo fondo materialistica, materialistica almeno nel senso in cui si è potuta concepire la nozione di materia nel corso dell’ultimo secolo: materia-energia, campo di forze scure e riottose, che il linguaggio degli studi amplifica fantasticamente con i suoi nomi densi di promesse più immaginose che scientifiche: materia e antimateria, particelle e antiparticelle, materia oscura, buchi neri… Il libro si dotrebbe dunque leggere come un’immersione, uno sprofondamento, anzi, in quel gorgo brulicante e metamorfico di vita in atto in cui l’io lirico, l’antico, in fondo così confortevole, io lirico urta nell’«armata // neutra delle cose» di cui si parla nella sezione Dal prima delle cose. Venendo al mondo (perché questo è il tema della sezione), uscendo dal grembo ctonio della madre, noi non cozziamo solo contro i nomi fiammeggianti del padre, contro il suo «farnetico» che si fa «legge», ma anche contro la durezza anonima del «c’è», cui già alludevo in una poesia di Bosco del tempo: «Nel plumbeo c’è, nell’immane, quando / il silenzio rintrona, e il vuoto / pesa sulle melmose idee, in una // selva di estenuati pensieri / che stagnano (c’è e solo c’è) / […]».

Nonostante la presenza (quantitativamente anche importante) di Seneca e di Marco Aurelio, di Agostino e di Pascal, delle laminette orfiche cui allude sotto traccia la poesia conclusiva, ho la sensazione che il baricentro conoscitivo del libro sia tutto spostato sui versi percorsi da questo empito tragico e vertiginoso, poiché non c’è nulla di estatico (come voleva Le Clézio di L’extase matérielle) in questo penetrare nella densità gorgogliante dell’essere: parlo, in particolare, della sezione Le muraglie del mondo, di Scale, di Quando, dal niente, della citata Dal prima delle cose, dove la rappresentazione del mondo si carica di qualcosa di angosciosamente estraneo, come di un accadere senza soggetto dinanzi al quale si sgretola ogni visione. Mi colpisce, rileggendomi, soprattutto la dimensione tutta materialistica e magmatica dei sogni che si impongono fin dalla poesia d’esordio: le anime di Quando, dal niente che stridono, rimontando dalla lunga teoria dei secoli, fino a stivarsi «nell’ammasso petroso» dei pensieri, non sono altro che «grumi, scorie di tempo, stridi / d’anima, materia / che si disgrega // in folate di mondo». L’accostamento di due parole così contrastanti e oppositive, nella tradizione occidentale, come «anima» e «materia» rivela, mi pare, più di ogni altra immagine, la matrice lievitante da cui si genera l’intero libro.

 

Quali sono i suoi maestri, gli autori ai quali fa riferimento mentre scrive?

Scrivere è anche un omaggio a chi ci ha preceduto, e ha consentito che potessimo scrivere, pensare, immaginare. Ogni libro ha perciò i suoi maestri più o meno celati, che corrispondono volta per volta alla materia del libro, ma che a volte, semplicemente, sono coloro che quel libro lo hanno permesso nello slancio di un pensiero, di un’intuizione, di una forma metrica. Così, per restare al Moto delle cose, è stato per il terzo prologo, che è nato sull’impressione, ritmica e immaginosa, prodotta dal magnifico canto sulla volubilità della Fortuna presente nella raccolta medievale dei Carmina Burana: O fortuna / velut luna / statu variabilis, / semper crescis / aut decrescis… Lo stesso era accaduto per una delle poesie che più amo della raccolta precedente – Leggevo, un giorno, Le api del Rucellai – nata quasi per partenogenesi, su un tavolo della Braidense, dalla lettura del troppo dimenticato poema georgico di Giovanni Rucellai. Se i maestri più dichiarati di questo Moto delle cose sono i grandi classici della cosmologia greco-latina, a cominciare da Lucrezio – cui devo l’ispirazione del titolo stesso –, più nascosti, ma non meno significativi, sono stati gli ombrosi maestri del pensiero morale, da Seneca a Marco Aurelio, lumi della mia lontana adolescenza.

 

Lei ha anche scritto per il teatro. Il suo ultimo lavoro è Ades. Tetralogia del sottosuolo (Neos, 2017). Ce ne vuole parlare? Qual è il suo approccio con la scrittura per la scena?

Come sempre, ogni genere esige la sua lingua: se non riesco a immaginare la lirica se non nella quiete di una lettura silenziosa, interiorizzata, i quattro tempi di Ades, pur nella diversità delle scelte linguistiche e stilistiche, sono stati concepiti per delle voci reali, corpose, concrete. La questione – tengo a precisare – non riguarda l’opposizione fra scritto e parlato: la lingua della letteratura (e il teatro cui penso è parola, nient’altro che parola) non è mai la lingua che usiamo nella vita quotidiana, anche se ovviamente niente impedisce che si possa farne uso. La parola scenica ha bisogno di una voce, di un corpo; deve rivolgersi a un pubblico di persone che costituiscono una comunità, che ascoltano all’unisono, senza i tempi di risonanza, fatalmente diversi, di chi legge nel silenzio della propria camera. E poi c’è lo spazio scenico, contro cui la parola urta, sbatte, venendone in qualche modo modificata, plasmata. In ogni caso, se il primo (Cunicoli) e il quarto (Catabasi a Milano) dei testi sono affidati a una lingua dinamica, aristofanesca, e dunque aperta anche al gioco delle battute, del divertissement, Albe si propone come un monologo tragico, una «passio per voce sola», come dice la didascalia. Il vendicatore, infine, proprio per il tema che affrontava, richiedeva una lingua chiara, articolata, geometrica nel suo implacabile moto argomentativo: lo scontro generazionale, qui, si fa teologico; il Figlio contesta il piano del Padre, spogliandosi della propria natura divina; il trasferimento del conflitto su un piano meramente borghese acuisce la dimensione scandalosa ed eretica della sua scelta.

 
 
 
 
È notte, sei
tra le cose del mondo, le cose
solide, vaganti che si sfanno
in altre cose: cose
su cose, nell’imo che fermenta,
e sprofondi
nella vita che è, nel tutto
che s’invasa in uno, prima
di sfarsi nel crivello della mente
 
stridi, becchi, blaterii
buchi di lingua, suoni
che si torcono, stipano,
si ammaccano
ed è lì, lei, fa un cenno
l’ombra funesta, troppo amata,
fa freddo, com’è troppa la stagione,
con che tenaglie stride, si torce, scuote
 
le lusinghe del mondo, «dov’è che sei?»
le chiedo, nel gelo
di biglia delle cose
«sei cosa o altro?», mentre delira
in delirio il mondo, si sfarina ed io
«non ho tempo per questo
struggimento stupido, doloroso, di’
 
soltanto se sei o no»
ma lei: «di’ tu, piuttosto, di’
qualcosa che valga
per me, per noi, che ti guardiamo», e va
per una strada che non conosco, va, dove non è
altro che lei, che loro, lì nella gran fossa
 
del firmamento algido, stipato
di roba ultima, vagante, «di’, se sai, qualcosa
che valga la pena», continua
stridendo come una stupida
ferraglia
 
e fa cenno, nel non so dove del sonno, nel
ben maturato senno della mente
a qualcosa che si cela, s’infima
in brividi, in onde
di niente, di poco – cosa
che si fa cosa, verbo
che s’intana
 
in una lingua di troppo gelo,
di solo, forse,
 
vuoto?
 
 
 
 
 
 
Com’è breve questa luce,
com’è lunga la notte:
bisogna andare a dormire, dicevano
voci troppo care.
 
Come allora,
oggi è un lungo sostare
sulla soglia che porta ad altre stanze:
una vela che sogna, in rada, il suo profondo
 
mare.
 
 
 
 
 
 
E lo vedemmo, infine, stremato-stremante, il buio
non buio – opaco, torpido, molle – che retrocedeva
nella sua teca di tempo ultimo,
grembale: era
in quella stiva estrema, fermentante, come
un agitìo di corpi, forme, ombre
di una vita che si sfaceva: falle
di essere che si rintana
 
nelle cantine del mondo.
 
 
Testi tratti da Il moto delle cose (Mondadori, 2017)