Gabriela Fantato


 

Michele Paoletti intervista Gabriela Fantato

 
 

In questi testi Gabriela Fantato ci consegna una serie di domande aperte, intuizioni quasi, sullo scorrere del tempo guardandosi indietro e in avanti con l’umana paura della nostra finitezza. Tuttavia non c’è rimpianto nei versi, anzi, la vita pulsa costantemente: è il sangue buono che ci fa vibrare come una porta chiusa troppo in fretta/che si riapre ancora, è il tavolo che balla/e forma i giorni alla ricerca di un continuo equilibrio davanti e dentro il mondo. Il dio delle piccole cose, di pane e buio, delle figure del presepe sta nascosto forse dentro noi stessi, in una zona fragile fatta di fibre, nervi, materia mutevole e incessantemente viva come la santa pelle del mare che si rinnova ad ogni battito d’onda, ad ogni mutar di vento.

 
 

Ad un certo punto si parla della ragazza senza sorriso salvata dentro il dolore. In che modo il dolore può salvarci? e da cosa?

La frase che ho scritto si è “imposta a me”, dopo il fatto di questa ragazza morta, fatto realmente accaduto. È venuta così, da chissà dove, si è DETTATA da sola, poi io stessa l’ho riletta e ho capito che in questo verso il dolore è sia soggetto che complemento, un po’ a sottolineare l’ambiguità del ruolo del dolore nella vita, il suo agire dentro la nostra vita, comunque, in una valenza ambivalente. Infatti, credo che il dolore sia parte della vita di ognuno, ma non solo perché è così, di fatto, ma nel senso che la integra, che quindi il dolore ci “salva” dal nostro sogno onnipotente di vita felice e rosea, e ci fa crescere, facendoci diventare consapevoli dell’intreccio vita/morte. Il dolore ci salva eppure… vorremo non soffrire, tutti noi. Ecco, quindi che il ricordo, l’affetto e l’amore salvano dal dolore, lo alleviano. E la poesia celebra anche questa valenza della memoria. Solo chi non lascia “eredità di affetti”, scrisse Foscolo che qui parafraso, “poca gioia ha dell’urna”, ovvero, solo chi non ha lasciato qualcuno che lo ami ancora… muore veramente. È la “corrispondenza di amorosi sensi” (ancora Foscolo!) tra i vivi e i morti che ci salva dal dolore totale, dal vuoto, dall’Oblio che cancellerebbe, con la morte, anche la vita.

 

In questi testi emergono numerosi riferimenti impliciti ed espliciti a percezioni fisiche. L’atto del restare ci consente di affinare lo sguardo, di goderci il gesto nel momento esatto del suo compimento. Si parla di assenza di cerimonia, eppure c’è un qualcosa di rituale in questi testi, mi piacerebbe approfondire di più.

Per me, tutta la vita è cerimonia , o meglio, è rito. E la poesia anche è un rito in parole. È rito che celebra la sacralità della vita, il suo valore assoluto, al di là delle contingenze. È rito che celebra la bellezza, in senso ampio, non solo estetico. Poesia e religione nacquero ravvicinate, in tempi arcaici, lo sappiamo… ebbene, io credo nel valore sacro della parola poetica che svela l’incontro inaspettato, l’accadimento che eccede le aspettative. La poesia rivela il telos insito in ogni evento del presente e lo collega al passato e al futuro, salvandolo quindi dall’Oblio. La poesia svela la potenza di metamorfosi del corpo in altri corpi e in altri spiriti o cose, quindi, ci svela la reincarnazione di ogni vivente in altri viventi. La Poesia che amo è sempre “religiosa”, che sia Rilke o Mandel’stam, De Angelis o Nanni Cagnone: tutti poeti dell’ “oltre”, dell’Invisibile. E intendo religiosa non nel senso formale, né per i temi che tratta, ma lo è per sua natura, per il valore intimo, intrinseco che ha la parola poetica. Sì, la mia poesia è rituale e anche religiosa e, infine, è anche apotropaica, se posso dirlo, almeno per me… Una fusione tra religiosità e superstizione, ecco.

 

Ne L’estinzione del lupo ad un certo punto parli di una fine che a volte prende/all’improvviso. In questi versi la fine diventa un momento di passaggio verso una seconda vita di legno. Che tipo di percorso c’è stato per maturare questa consapevolezza?

La metamorfosi, in fondo, è il mio tema, assieme all’ambivalenza del reale, alla sua inafferrabilità. Metamorfosi che è da intendersi, come dicevo, anche come reincarnazione: trasformazione di materia in altra materia e trasformazione di spirito in altro spirito. Tutta la vita tende a trasformarsi, a mutare, e tutto va verso un passato: trasformarsi è, quindi, un ritorno alle origini, un’ evoluzione verso la semplicità ancestrale, verso l’ esistenza essenziale (del legno, della pietra per esempio!). Questo percorso di pensiero è collegato sia a mie letture filosofiche e anche di mistiche (penso al filosofo che più ho amato da ragazza, Gaston Bachelard, e alle grandi mistiche, come Ildegarda di Bingen o Santa Teresa d’Avila che ho letto), ma contano anche gli incontri e le letture poetiche: penso a quella sorta di visionarietà (laica e totalmente terrena) che io leggo nelle poesie di Majorino, Cucchi e De Angelis, tra i poeti contemporanei che amo di più, poeti non miei coetanei, ma coi quali ho intrecciato amicizia e incontri letterari in moltissime occasioni, coi quali ho avuto scambi di idee che hanno inciso sulla mia formazione. Tre autori nei quali è evidente una come la parola poetica dica la tensione trasformativa che attraversa il reale, sia come metamorfosi della materia, sia come ritorno all’origine. E così troviamo la coincidenza del soggetto coi più umili e diseredati, penso al Babeuf di Maurizio Cucchi, per esempio; il dire che noi tutti siamo “corpi di corpi”, un mosaico di persone incontrate e di intrecci/scambi, anche con il mondo degli animali, in certo lavoro poetico di Giancarlo Majorino, e la tensione a scorgere nel’attimo presente la memoria dell’origine, ovvero, la nostra individuale origine, intesa come infanzia / adolescenza e non solo, nei versi tragici e sacrali di De Angelis.

 
 
 
 
Della nostra mortalità
 
I.
 
E se ci fosse un dio
nascosto tra le cose, dentro
lo spazio che unisce e separa,
dove si legge la fine che abbraccia
il bordo nuovo di una
seconda vita di legno,
di sale e lacrime e chiodi mai conficcati,
                  solo puntati
per certezza al tavolo che balla
e forma ai giorni.
 
 
 
 
 
 
II.
 
E se provassi a tendere la mano,
come un vecchio marinaio dentro
il suo vento di levante,
dentro la santa pelle del mare
e quella luminosa del giorno che nascevi
quando anche morirai,
e se avessi il moto e la certezza
che inventi, che sai dire
                   – la tua storia
con gli stessi volti, ma con le pieghe
nuove da scoprire
 
 
 
 
 
 
Invocazione
 
Invoco quello stare dritto
                    – davanti e dentro il mondo
senza cerimonia, senza chiedere
e solo per restare,solo per il gesto,
ah, il gesto!
La vita dentro le vene
e scorre e viene tutto, proprio tutto
         solo nel gran silenzio
dove il tempo separa
e taglia ancora il numero degli anni
e dio è un dio piccolo di pane e buio,
come le figure da presepe,
come la ragazza senza più
sorriso eppure salva,
salvata dentro il dolore.
 
 
 
 
 
 
La materia dei sogni
 
Ecco l’osso,sotto, più sotto dentro:
la zona fragile che non si vede, eppure
eppure è lì che si ficca il tempo che ci lima
il punto della corsa, il salto dove
ti prende subito paura che sia troppo o poco
il viaggio fatto e ciò che resta.
 
Ecco i nervi, le fibre che sfuggono
ogni previsione e il movimento
dove si addensa il grumo,
quel nostro stare in bilico, sfibrati come
guanti troppo smessi, come una sedia
a cui s’ è rotto il passo.
 
Ecco il sangue buono e giusto che ci corre,
quel sempre scendere
                  e poi ancora risalire,
il tanto – sempre, che ci batte come
una porta chiusa troppo in fretta,
che si riapre ancora e ancora
                       a ogni vento.
 
 
I testi sono tratti dalla raccolta Vite Rubate, di prossima pubblicazione per Transeuropa. (NdR)