François Nédel Atèrre

Bozza automatica 1623

Michele Paoletti intervista François Nédel Atèrre

François Nédel Atèrre (pseudonimo di Francesco Terraccia­no) è nato a Napoli, dove vive e lavora, nel 1967. È laureato in Economia e Commercio. La letteratura, contrappunto alla formazione universitaria e professionale, è costantemente al centro dei suoi interessi: lo studio della poesia europea – del modello italiano, inglese e francese così come delle significative testimonianze russe del Novecento – ha motivato la sua partecipazione a numerose iniziative, mante­nendo vivo il contatto con una realtà complessa e in continua evoluzione.

Ha pubblicato una raccolta di poesie, Phonè (1992) e un vo­lume di racconti, Il Salice Bianco (1993), entrambi con lo pseudonimo di Francesco Miti. Numerose le sue collaborazioni con riviste letterarie e le par­tecipazioni a progetti editoriali, rassegne e seminari.

Del 2018 è la raccolta poetica Mistica del quotidiano, Terra d’Ulivi edizioni.

Come nascono le tue poesie?

Credo, Michele, che nascano dalla rielaborazione di quello che mi accade o che vedo in una fase della mia vita, o in un preciso momento: dico rielaborazione perché ciascuno di noi, leggendo la realtà con la propria lente e quindi restituendole il significato che merita, vorrebbe ordinare, ricondurre a unità ma finisce col produrre altri frammenti, ancora più impegnativi da sistemare: dico credo perché non sono sicuro – e, tutto sommato,  ritengo sia una fortuna- che questa spiegazione sia sufficiente.

Per quanto riguarda l’aspetto tecnico, prendo appunti che sviluppo subito, se ho tempo, o qualche ora dopo. Ogni cosa che scrivo viene sottoposta ad una revisione continua, al limite alto della crudeltà: lascio un testo solo quando sono ormai privo di forze,a parte l’esito che riesco ad ottenere.

Un tempo usavo taccuini, comodi da tenere nelle tasche; oggi mi servo dello smartphone, come tutti, perché mi permette di tornare più rapidamente sull’idea e sulla forma, e di arrivare senza troppi passaggi alla condivisione.

Quali sono i tuoi autori di riferimento, quelli a cui ritorni quando scrivi?

Sono stato – e sono – un lettore voracissimo. Quando ho iniziato a “studiare” la poesia con metodo – la poesia, lo sai meglio di me, è prima di ogni altra cosa esercizio-ho cercato di organizzare diversamente il tempo che avevo a disposizione, perché sapevo che non mi sarebbe bastato.

Posso dirti quali siano stati i miei autori di riferimento in ogni periodo della mia vita, perché ciascuno ha avuto i propri. Non ci sono stati solo poeti, come è ovvio: da ragazzo, ho amato tutto il Lake District -Wordsworth e Coleridge in particolare- poi Keats, Rimbaud e Baudelaire; Flaubert e Balzac, Dickens; Leopardi, Pascoli, D’Annunzio e gli anti-dannunziani (Gozzano in primis).

Anni dopo, di poco più grande, Auden e Hughes (alle Birthday Letters, come alla Plath dei Collected Poems, torno ancora adesso), Heaney, Beckett, Brodskij.

Più di recente, i relativamente vicini Raboni, Sereni, e Rebora. Luzi e Fortini, anche.

Non ti ho detto, però, a chi torno quando scrivo: all’Achmatova, a Mandel’stam, a József.

Per quanto riguarda i famosi e non ancora famosi che appartengono al mio oggi, preferisco tacere i nomi: alcuni li conosco, in qualche caso li frequento: i diretti interessati sanno già, o non vale la pena che sappiano.

Quando è nato il tuo “alter ego poetico”, Francois Nedel Aterre?

È la prima cosa che mi chiedono, lo sai? (ride). Anche adesso.

In prima battuta, se chi mi avvicina o avvicino non pensa a qualche origine straniera – impressione che risolviamo subito con un paio di battute – è portato a credere che questo eteronimo sia un modo per darmi un tono, per romanzare la biografia: niente di tutto questo, la cosa non potrebbe essere più lontana dal mio carattere.

È nato, invece, durante le mie prime esperienze con i social: desiderando proteggere il tecnico che lavorava e lavora altrove, con il suo bel curriculum umano e professionale (e, soprattutto, non volendo essere trovato da vecchi conoscenti e nuovi importuni), ho semplicemente tradotto in francese il mio cognome: Terracciano l’ho sempre fatto derivare dal latino Terrigena, Nato dalla Terra, in francese Né de la Terre, e poi Nédel Atèrre spostando qualche sillaba. Da Francesco a François è stato ancora più semplice.

Con questo nome ho iniziato a pubblicare, qualche anno fa, le cose che scrivevo su FB, come una sorta di esperimento: volevo osservare il gradimento e le reazioni dei lettori per orientare la mia scrittura, per accogliere le indicazioni.

Poi ho finito con l’affezionarmi a Nédel -ormai c’era, e l’ho tenuto. Devo dire che è diverso da me, quasi sempre migliore: François pubblica le sue cose, avvicina scrittori, partecipa agli eventi; Francesco è decisamente più schivo, una specie di Bartleby: I would prefer not to, risponderebbe quasi ad ogni domanda: un antipatico, insomma, snob e pieno di sé. Grazie a François, inoltre, ho conosciuto molte persone interessanti, delle quali non saprei fare a meno, oggi.

A chi obietta, poi, che François Nédel Atèrre non sarebbe un vero francese, rispondo sempre che non volevo esserlo, che non lo erano neppure Charles Aznavour, Yves Montand o Pierre Cardin -armeno il primo, italiani gli altri due- : l’unica patria che abbia un minimo di senso è quella d’elezione, il luogo dove desideriamo vivere, quello che più ci somiglia. E quella che più somiglia a me è il Regno Unito, semmai.

Raccontaci com’è nato Mistica del Quotidiano, il tuo ultimo libro.

L’idea di Mistica, il progetto che ho avuto in mente fin dal primo momento, è nata quattro anni fa, come reazione ad alcuni eventi della mia vita privata – non sarà necessario parlarne, erano importanti per me, per alcuni potrebbero essere ininfluenti, questione di carattere. Prima di quei fatti, avevo scritto con minore frequenza, spesso dimenticando appunti ed elaborati finiti chissà dove nei miei spostamenti. Molti anni fa, avevo pubblicato una raccolta di versi e un volume di racconti con altro pseudonimo; dopo quei libri, soltanto poche cose, qualche collaborazione. In conseguenza di quei casi di vita di cui dicevo prima, ho ripreso a scrivere ogni giorno, con una furia mai sperimentata prima, avendo in mente cosa volevo dire e come dovesse essere la raccolta.

Non mi sono mai fermato, neanche quando Mistica è stato pubblicato. E non sono fermo neanche adesso.

Nella postfazione Melania Panico parla dell’intento di conservare dell’autore. Effettivamente Mistica del quotidiano è un libro ricco di ricordi, oggetti, figure. Qual è il tuo rapporto con il ricordo, con la memoria?

Melania Panìco ha còlto un aspetto determinante, della mia attività di autore: non credendo nel passato, e potendo essere certo solo di un presente che non passa mai, che è in realtà l’unico tempo storico possibile, il ricordo e la memoria diventano ancora più importanti, perché rischiano di svanire nell’affollamento e nella sovrapposizione di cose che il presente, il nostro presente prossimo o remoto, determina.

Dico appena che Mistica è mosso da due donne, che sono state e sono importanti nella mia vita. Aggiungo che si riferisce anche al tempo storico che ho vissuto, con i suoi limiti, le sue novità e i suoi drammi: anche in questo senso i prodigi, le svolte epocali e le illusioni non passano mai, si sovrappongono e si depositano. Come le gioie e i dolori.

Nel libro sono presenti anche numerosi elementi naturali dove, scrivi, si rifugia il sacro (Dice che aveva trovato rifugio / discreto, nelle cortecce dei tronchi, / sopra gli steli di piante spontanee / sottili, tese ai ferri dei balconi, / tra i semi capitati nel terreno. Natura dunque come tempio.

Il sacro mi ha sempre affascinato, in una dimensione non necessariamente religiosa o animistica ma come categoria di attributi che si aggiungono o significano ulteriormente il reale che viene percepito, come viene percepito (vedi che torniamo alla prima domanda che mi hai fatto, agli ulteriori frammenti di cui parlavo io nella mia risposta).

I Greci usavano il termine hagios per indicare qualcosa di inviolabile, non accessibile ai mortali -tradotto in latino con santcus, santo – distinguendolo da hieron, la potenza divina in sé, che si manifestava tanto nella costruzione di un Tempio dedicato alla divinità, ad esempio, quanto nel tempio stesso, ma nessuno dei due termini, secondo me, contemplava la vita umana;quest’ultima, piuttosto, era esclusa o respinta da entrambi.

Credo che l’approccio al sacro, così come l’ho definito, sia definitivamente perso: pochi tra noi sono ancora in grado di percepire l’eccezionalità di un frutto che matura, di una pianta che cresce, di un costone di roccia. Credo che, in questo, la Natura sia stata definitivamente tradita, e con essa l’uomo -un capitolo a parte, non scritto, dei Testamenti Traditi di Milan Kundera che avrei letto volentieri.

La Natura, anche così violata, resta ancora oggi l’unica via possibile per recuperare il concetto di sacro. È per questo che dobbiamo entrare di nuovo nel suo tempio: non tanto per recuperare lei, ma per ritrovare noi stessi.

A farla breve – perché il tempo manca –
dovremmo ricordarci di spiegare
ogni entità in disordine, anche il moto
più turbinoso dell’animo, oscuro,
con le parole semplici del poco.

Questo noi non abbiamo saputo,
strappare un brano di materia viva
e sezionarlo in punta di penna,
mostrare a tutti di cosa sia fatta,
tolto il superfluo, la carne senziente.
Ci è spesso ignoto lo sguardo sicuro
di chi sa separare nettamente
la galla stenta dal frutto maturo,
le foglie dall’umore appiccicoso
che le vorrebbe nutrire e avvelena.

Ci resta appena chiedere perdono
per quello che ci morde, inverato
per arzigogoli di strana lingua
– l’unica di cui siamo capaci –
desti solo a metà, la testa altrove.

Entra, la porta è socchiusa. Ti aspetto.
Ho fatto posto sull’attaccapanni,
nel corridoio dove nessuno passa.

Ho levigato quelle due parole
che non dirò, tenendole da parte,
fidandomi soltanto del silenzio.

Avremo pane e noci, una finestra
schermata bene, un tavolo di legno.
Faranno più rumore i gusci aperti
di ogni altra voce, festosa, per strada.

Ora ricordo, credo di aver scritto
qualcosa di diverso, ma è la stessa
goccia in caduta, ogni cinque secondi,
dalla cannella al fondo dell’acquaio.
Atteso a lungo, l’incontro del fiume
col mare ha mantenuto il suo segreto,
e la foresta è stata attenta, a sera,
a dire poco di abitanti e querce.

Mi piace, adesso, di queste grondaie
bitorzolute che l’acqua raccolta
non è la mia, come il pietrisco ai fiori
delle sparute aiuole. A mezzo i viali,
stretti di fianco a corti silenziose,
se alcuno passa non mi riconosce,
né si dà pena di farmi un saluto.

Ma mi ha accettato, il genio che dimora
nel luogo, il mascherone sorridente
dei fregi in cima alle finestre, al tetto
di questa casa antica. Nei mattoni
scoperti al vecchio intonaco, sporgenti
come gengive, rughe intorno al labbro,
c’è già qualche sorriso, e avanza. Io resto.

Lascio, saprai far meglio di sicuro.

Le poesie sono tratte da Mistica del quotidiano (Terra d’ulivi ed.)