Francesca Del Moro


 
 
Michele Paoletti intervista Francesca Del Moro
 
 
Crocifisso a te
a te legato
muoio così
perché così t’ho amato
.
 

Trovo questi versi di Giovanni Testori, (contenuti nella raccolta Per sempre in Opere 1965.1977, Classici Bompiani 1997) molto affini alle poesie presentate da Francesca Del Moro. Si avvertono la stessa tensione emotiva e lo stesso ardore che portano a trasformare l’oggetto dell’amore in oggetto divino, un idolo di pura luce che penetra e spalanca il corpo dell’autrice. La storia è quella di una passione folgorante ma già esaurita, recisa da una frase / aguzza, gelida, precisa che spegne ogni speranza e, addirittura, nega la possibilità di un ricordo. Tuttavia al rimpianto si mescola una gioia febbrile, la consapevolezza di aver vissuto pienamente l’attimo in una sorta di estasi mistica. Il dolore è terribile, la ferita sul cuore pulsa e brucia, alimentata da una furia rabbiosa ed è forse questo il rimpianto dell’autrice, quello di essersi immolata sull’altare della passione mostrando il suo lato più indifeso, più vivo.

 
 

Nulla, ti giuro, / è nero. / Tutto, se ami, è semplice, / atroce, / vero. dice ancora Testori. Semplicità, atrocità e verità sono conseguenze inevitabili affinché un amore sia intenso e degno di essere vissuto?

Qualsiasi amore secondo me è degno di essere vissuto. O meglio, qualsiasi cosa ciascuno di noi sia portato a chiamare amore. Si tratta di una condizione che tutti ci riguarda ed è al tempo stesso estremamente soggettiva, quindi non parlerei di “conseguenze inevitabili”. Non mi sento di proporre definizioni, anche perché definire significa delimitare, e dunque escludere. Posso solo provare a dire dell’amore che è al centro della mia scrittura, di quello che ho conosciuto. È certamente semplice: ti porta dritto in una direzione, non c’è niente da capire, non c’è da orientarsi, la strada è segnata e luminosa. Non puoi fare altro che seguirla: sei pieno, mente e corpo, di quella persona, vicina o lontana che sia. Ti senti vivo in modo amplificato e ti abbandoni. Dell’amore non ti liberi quando vuoi, la ragione non può nulla. Non puoi spegnere a tuo piacimento pensieri ed emozioni persistenti, al massimo puoi scegliere di non alimentarli e aspettare che svaniscano. Da qui viene l’atrocità: ti affidi a qualcuno che può ferirti a fondo, rifiutandoti, disprezzandoti o semplicemente ignorandoti. Senza, a sua volta, poter fare altrimenti. Quando questo accade, il dolore che provi può essere così atroce da farti desiderare sinceramente di morire. Conseguenza dell’amore è la verità perché ti mostri nella tua nudità e diventi vulnerabile mentre cade ogni filtro, ogni difesa. Quella che offri è la parte più intima e più autentica di te. Questo, almeno, è ciò che ho sperimentato, ciò che ho sentito di poter chiamare amore. Scrivere è stato spesso per me un modo di amare qualcuno.

 

Questi testi raccontano anche che la crudeltà ricevuta spesso si trasforma in mancanza di gentilezza nei confronti di un’amica, di un passante. In questo caso far soffrire gli altri può essere un modo per soffrire di meno?

No, non direi. Hai presente quella fantastica scena di Pensavo fosse amore e invece era un calesse, in cui Massimo Troisi invita gli amici a lasciarlo soffrire in pace? Quella in cui dice: “Lasciatemi soffrire tranquillo. Io non vi chiedo niente a voi. Vi ho chiesto qualcosa? No. Voglio solo soffrire bene. Mi distraete. Non mi riesco a concentrare.” Una ferita profonda appena ricevuta chiede tutta l’attenzione e tu vorresti concentrarti su quella, magari per tamponarla. Tutto ciò che ti circonda diventa molesto, ti distoglie dall’unica cosa che ti interessa. Appena entri in comunicazione con qualcuno la rabbia e il dolore che provi schizzano fuori senza che tu possa controllarli, colpiscono il bersaglio che trovano. Ma nei versi a cui ti riferisci c’è qualcosa di più: affiora la paura che il colpo possa compromettere quanto c’è di positivo nella mia natura, che mi renda indisponibile a incontrare gli altri. Che sia talmente forte da guastarmi.

 

Si respira una religiosità pagana in queste poesie.

I versi dell’intera plaquette guardano perlopiù al cristianesimo, anche se una delle poesie qui presentate chiama in causa il mito di Icaro. Si comincia con la descrizione di una chiesa e con un riferimento alla Passione di Cristo per finire con l’apparizione di un Dio sadico e beffardo. Scrivendo la poesia il cui primo verso recita “Non ti farò mai male” pensavo alla visione dell’ultimo canto del Paradiso di Dante: ho cercato di dire l’enormità del desiderio, come fosse un mistero divino da svelare, mettendo in campo situazioni impossibili in cui le coordinate spazio-temporali saltano e il corpo si appropria di tutte le energie, dell’infinitezza del cosmo. Scrivendo queste poesie, ho risentito delle letture che mi hanno maggiormente colpita negli ultimi tempi, in particolare dei versi di Silvia Rosa, Daniela Andreis, Claudia di Palma e Anne Sexton. Ho inoltre esasperato la dedizione, il donarsi dell’innamorata sovrapponendo al mio sentire il volto della protagonista di Madre!. Sia nelle opere delle autrici citate sia nel film di Aronofsky, l’amore ha in sé i tratti del fervore religioso. Il tema della fede mi ossessiona da sempre: sono diventata agnostica dopo un percorso di ricerca e dopo aver studiato a fondo la Bibbia, su cui ho dato anche due esami all’università. Il personaggio di Cristo mi affascina e a lungo mi sono sforzata di amarlo. Ma non ci sono riuscita, perciò ho dirottato la mia tendenza all’idealizzazione, il mio spiccato bisogno di assoluto su persone reali. Con conseguenze ovviamente catastrofiche.

 
 
 
 
Mi ha risposto con una frase
aguzza, gelida, precisa,
sta tutta in una riga.
Ha scelto con cura il sostantivo,
i verbi, la punteggiatura. Ha espunto
ogni sfumatura di calore. Ha tagliato via
il sogno, la tenerezza, l’amore,
la possibilità del ricordo.
Io reagisco con una mancanza
di gentilezza che mi è nuova
all’amica che mi parla,
allo sconosciuto che passa.
La frase è ferma in mezzo al petto
e taglia.
 
 
 
 
Sì mi sono bruciata
sì sono caduta
sì sono annegata
ma mentre erigevate
templi sulla fredda pietra
io per due ore
ho tenuto stretto il sole
ho immerso gli occhi
in quell’occhio smisurato
ho avuto il corpo
tutto penetrato
dalla sua luce.
 
 
 
 
Non ti farò mai male
non ci sarò nella tua vita reale
ma se ti incontrerò di nuovo
un giorno quando il tempo
metterà un piede in fallo
io arderò del fuoco
di tutte le stelle
con dita tese tirerò
i fili dell’infinito,
te li abbraccerò intorno
e come la bocca di dio
spalancherò il mio corpo.