Favēte linguis – Mario Famularo

Favēte linguis - Mario Famularo

Favēte linguis, Mario Famularo (Giuliano Ladolfi Editore 2019, prefazione di Giulio Greco, postfazione di Luca Cenacchi).

 

Conosco Mario Famularo ormai da diversi anni e l’ho fortemente voluto con me nel fortunatissimo ciclo di incontri triestini Una Scontrosa Grazia e su Laboratori Poesia, come critico. Non oso dire militante, parola usata e abusata spesso per giustificare una presunta distinzione. Devo necessariamente dichiarare il contesto da cui mi muovo, affrontando le sue pagine, anche per spiegare una certa differenza di vedute che ci distanzia ormai da tempo per quanto riguarda la materia poetica. Differenza che nasce dalla lettura di una sua precedente opera, quando ancora inedita, e da un troppo distratto ascolto di alcuni suoi reading a Trieste ma non solo.

Distanza che non è mai andata a inficiare una bella amicizia e che, proprio per questo, ha consolidato un rispetto e una stima importanti e strutturati. Distanza, altresì, che in queste poche righe voglio rinnegare perché, in Favēte linguis, ho incontrato testi che giudico straordinari, al netto di ogni possibile amicizia.

 

Ma prima di entrare nel merito è bene affrontare quello che in Famularo è un approccio non tanto al verso (tra l’altro bene spiegato da Luca Cenacchi in postfazione, alla fine di questo articolo alcune righe) quanto alla vita. C’è uno scollamento evidente tra quanto l’individuo sente di voler vivere e quanto invece è costretto a vivere per convenzione sociale. Convenzione che nasce dalla necessità di proteggere l’uomo dall’uomo, il che inevitabilmente porta a una visione sconfortata del vivere stesso.

Si notino certi sprazzi poetici più simili a ferite:

 
 
non dirò la dispersione
 
ma solo l’occorrenza
di annientarsi nel contagio
della contaminazione

 
 
[…]  
 
o forse in fondo menti
 
 
[…]  
 
la muta aspirazione a qualche cosa che
mi annienti

 
 
[…]  
 
quest’uomo senza pace
è il cancro della terra

 
 
[…]  
 
dei due chissà
per primo chi
si scioglierà nel
vuoto

 
 
[…]  
 
un lutto come questo
c’è chi lo vive sempre

 
ma dirlo non ha
senso

 
 
[…]  
 
quasi infastidito dal mio
stesso respirare

 
 
[…]  
 
servi dell’impianto
trasversale della norma
imposta dal progresso per difendere
dall’uomo

 
 

Negli ultimi versi citati il concetto di uomo che si deve difendere dall’uomo. Homo homini lupus. Ma a un livello talmente congenito che va oltre l’aggressività umana e individuale. È parte integrante della sua nervatura quanto della necessità di un sistema di norme che rendano vivibile la coesistenza.

Carlo M. Cipolla, nel suo straordinario Allegro ma non troppo – con Le leggi fondamentali della stupidità umana (prima edizione privata 1976, prima edizione pubblica Mulino 1976 – una mia piccola nota qui) affermava:

 

Le faccende umane si trovano per unanime consenso, in uno stato deplorevole. Questa peraltro non è una novità. Per quanto indietro si riesca a guardare, esse sono sempre state in uno stato deplorevole. Il pesante fardello di guai e miserie che gli esseri umani devono sopportare, sia come individui che come membri della società organizzata, è sostanzialmente il risultato del modo estremamente improbabile – e oserei dire stupido – in cui la vita fu organizzata sin dai suoi inizi. Da Darwin sappiamo di condividere la nostra origine con le altre specie del regno animale e tutte le specie, si sa, dal vermiciattolo all’elefante, devono sopportare la loro dose quotidiana di tribolazioni, timori, frustrazioni, pene e avversità. Gli esseri umani, tuttavia, hanno il privilegio di doversi sobbarcare un peso aggiuntivo, una dose extra di tribolazioni quotidiane, causate da un gruppo di persone che appartengono allo stesso genere umano. Questo gruppo è molto più potente della Mafia o del Complesso industriale-militare o dell’Internazionale comunista. E un gruppo non organizzato, non facente parte di alcun ordinamento, che non ha capo, né presidente, né statuto, ma che riesce tuttavia ad operare in perfetta sintonia come se fosse guidato da una mano invisibile, in modo tale che le attività di ciascun membro contribuiscono potentemente a rafforzare ed amplificare l’efficacia dell’attività di tutti gli altri membri. La natura, il carattere ed il comportamento dei membri di questo gruppo sono l’argomento delle pagine che seguono. Occorre sottolineare a questo punto che questo saggio non è né frutto di cinismo né una esercitazione di disfattismo sociale – non più di quanto lo sia un libro di microbiologia. Le pagine seguenti sono, infatti, il risultato di uno sforzo costruttivo per investigare, conoscere e quindi possibilmente neutralizzare una delle più potenti e oscure forze che impediscono la crescita del benessere e della felicità umana.

 
 

Trovo che tali parole potrebbero benissimo essere apposte a incipit di Favēte linguis che, di fatto, afferma l’esatto contrario rispetto all’ultima frase di Cipolla:

 
 
bisogna fare il vuoto valorizzare il nulla
che intorno ha prevalenza
su tutte quelle cose che sembrano impedirlo

 
 

D’altronde lo stesso titolo scelto da Famularo per l’opera, Favēte linguis, è una dichiarazione in tal senso che molto si avvicina a Cipolla, provenendo dall’oraziano Odi profanum vulgus et arceo. / Favete linguis: camina non prius / audita Musarum sacerdos / virginibus puerisque canto (Odio l’estraneità degli uomini e la fuggo. / Sia fatto silenzio! per vergini e fanciulli / io, sacerdote delle Muse, canto /poesia che prima non fu udita mai). Un canto contro la mediocrità, la stupidità, umana.

È possibile quindi il benessere? La felicità? Con non poca curiosità sono andato a cercare i testi dove in qualche modo appaiono termini e sinonimi di bene, di felicità:

 
 
ogni traccia del rimpianto
scioglie slavata la pioggia
 
distendiamo randagi i
lembi dell’andare
 
pianificando a tratti una
premura, un’attenzione
 
soffermarsi non aiuta
porta all’ossessione
deformante ed esclusiva
 
lo scarto del contatto
 
è invece la tensione
di chi ci è più vicino
che appiana l’apprensione
 
la debole fiducia
che azzarda connessioni
 
lo scroscio è già tornato
risolve ogni legame
 
non erra chi si presta
nel silenzio, la propria
agitazione tralasciando in un
ricamo
 
che imprime
uno squilibrio verso il
bene
 
 
 
 
 
 
osserva la bellezza della contaminazione
lo sguardo ha consistenza
rimodula gli oggetti
per quanto questa terra sopravviva senza
l’uomo
si lascia modellare da quest’indole
infestante
 
dovremmo ricalcare la pazienza
delle cose
la calma remissiva del pianeta
che si arrende
 
le arterie quasi occluse da
metastasi d’acciaio
il derma soffocato
il cuore, le risorse
devastate dalla fame
 
di cosa poi
agiatezza, benessere, piacere
istinto o forse
noia
 
quest’uomo senza pace
è il cancro della terra
 
 
 
 
 
 
le corse, le risate
il gioco preferito
e poi di nuovo in bici cosa
importa del
pericolo
 
oppure abbandonarsi
tra le onde e la
tempesta
 
così sfidare il mare
inventandoci una
tecnica
 
magari andare a fondo
per non uscire
più
 
e invece sopravvivere
sentire l’esistenza
soltanto nella sghemba
rilucenza della
fine
 
era così estranea
in quell’estate
primitiva
sommersi nel benessere
inebriati d’incoscienza
 
 

E, si noti bene, non appare mai la parola felicità. Ma se il poeta, ora astraendoci dall’autore specifico che ne è comunque forma, percepisce sotto il ghiaccio l’acqua che muove e commuove, anche la realtà ne lascia intendere brevi squarci (e in questo quasi un’eco della Xenia montaliana):

 
 
tra la folla centinaia
di persone circoscritte
sezione discontinua in
un insieme di materia
 
ed ogni cosa intorno sopravvive
al nostro tempo
il lutto riconduce a collocare
ancora oggetti
 
questo è da tenere
ricorda un bel momento
che siano i nipoti dei
nipoti poi a
smaltire
 
la ditta che si incamera
gli armadi e le anticaglie
preludio sistematico
all’ammodernamento
 
e un giorno ritrovare
dentro un libro in
un mercato
 
la disperata lettera
di amore per la
vita
 
 

Altra cosa è poi la volontà umana, povertà ulteriore sulla sua già povera natura ed esistenza. Su questo Famularo si sofferma in maniera molto interessante (e, devo ammettere, per me che lo conosco addirittura inaspettata) nella sezione Egon che si appoggia alla figura di Egon Schiele:

 
 
perché è lo stesso corpo che
si torce deformato
sotto i colpi della vita
di signora o prostituta
 
a cosce aperte e nuda
fa’ una distinzione

 
gustav lo comprende
sa che dici il vero
 
che sotto l’oro acceso di
quei baci virtuosi
 
nascondono qualcosa
di terribile e più
nero
 
 
 
 
 
 
dipinti mostruosi
 
pornografici, ti dicono
di certo inadeguati a spettatori
così acerbi
 
che posano anche nudi
che tenti di sedurre
la gente qui a neulengbach
è molto preoccupata
 
il giudice dà voce a tutto il borgo
inacidito
in aula brucia un quadro
troppo indegno da guardare
 
sorridi incatenato
 
eppure è proprio questo
ciò che hai desiderato

 
 
 
 
 
 
e tutti quei bambini che ospitavi
nel tuo studio
 
distorsione, distorsione
 
l’innocenza deformata
che ostentavi prematura
 
nessuna porcheria
a meno che sia un porco chi
l’osserva

 
mettevi a nudo quella
vergognosa borghesia
in quella carne ingenua di
ragazzo disgraziato
 
nessuna compassione
bellezza o riflessione
 
sudando freddo celano
la loro eccitazione
 
avendo fatto emergere
quell’animo più vile
il muscolo deforme di quegli anni
benvestiti
la colpa è solo tua
 
pertanto è doverosa
la tua incriminazione

 
 

Alcuni giorni fa ho già parlato (qui), in relazione al libro Nerotonia di Rossella Pretto (Samuele Editore 2020, collana Scilla, prefazione di Flaminia Cruciani), dell’insostenibilità della vita. In Famularo abbiamo un differente approccio ma una simile conclusione. Una ricerca, una necessità, di qualcosa di alto e puro che non trova appigli nel reale. E che non può trovarlo sia per costituzione sia per volontà umana.

E qual è quindi la soluzione? O una delle possibili soluzioni? In Favēte linguis c’è un particolare che molto mi ha colpito e che mi ha convinto essere la chiave di volta e d’intoppo di questo approccio con la vita. Il tu. A ben leggere infatti Famularo oscilla da un tu intimo e reale, una persona, a un tu istituzionale, ampio, generico. Come se la possibilità del dialogo fosse essa stessa possibilità d’infrangere una natura che non si può accettare. Perché siamo così come ci racconta Famularo, ma abbiamo bisogno di non essere così, di non pensarci così. E il tu, più o meno occasionalmente, ce ne da la possibilità. Come nell’ultimo testo dell’opera:

 
 
silenzio, finalmente
 
scriverlo è
menzogna
 
fine del
conforto
sezionato dalle attese
 
le lettere troncate
col senso
dell’inchiostro
 
il foglio si smarrisce
tra il pulviscolo del
tempo
 
 

 
 
mi osservi con lo
sguardo che interroga
ed implora
 
prima di svanire
teniamoci al disegno
 
abbiamo osato il gesto
nel progetto
frantumato
 
l’estrema negazione
non è così
letale
 
annega la parola
sotto il peso della mano
 
e nel suo soffocare
riconosci
l’essenziale
 
 

All’inizio di questa mia piccola nota di lettura parlavo di un punto di vista, che poi a ben vedere è più stilistico che contenutistico, che mi ha da tempo distanziato da Famularo e che ora voglio ribaltare. Perché, e l’Editore perdonerà se cito troppi testi (non tutti però), tra queste pagine ho trovato una sezione di poesie talmente straordinarie che non nego avrei voluto pubblicare io. Una sezione puntuale, densa, precisa, commovente. Un’analisi della professione dell’autore, avvocato, vista dal di dentro che a ben vedere è un’analisi dell’uomo, del suo (pirandelliano) teatro, del suo linguaggio che è il suo modo di essere nel mondo.

 

Alessandro Canzian

 
 
 
 
Diritti esiziali
 
 
a ognuno le sue maschere. dipende
dalle circostanze. da chi conosci,
chi frequenti, da cosa sei costretto
a fare per sopravvivere. pochi
possono permettersi un esilio
volontario. è un lusso assai costoso,
noi altri per converso ci si impegna
nel teatro. nelle dissimulazioni.
e dire che di sotto alle personae
resta il nulla. l’istinto e il disincanto
in cui sembra concessa qualche pace.
(si sgretola anche il masso più tenace)
 
 
 
 
 
 
non che volessi fare l’avvocato,
cristallizzarmi nei categoremi del
diritto, ma è successo, un po’ per
disperata necessità, un po’
per fortuna. poi si impara ad amare
l’arco e anche la freccia, non solo la
sua preda, si vive la stagione
della caccia. si impara, soprattutto,
a sorridere sempre. gli avvocati
possono piangere, ma soltanto
quando è tutto finito. (ed anche il
turbamento nell’attesa è già svanito)
 
 
 
 
 
 
tredici anni, dico, e nemmeno una
parola. piuttosto parla il padre,
“è arrivata questa a casa”. la procura
della repubblica persegue una
bambina denunciata dalla madre.
maltrattamenti in famiglia, l’inizio
del reato corrisponde alla data
di nascita. voglio credere sia
una svista, certo, imperdonabile,
come l’espressione muta della piccola,
lontana da ogni cosa,
che appena muove il capo se le parlo.
del resto ogni parola sembra proprio
uno squilibrio, l’incanto del sistema
che costringe in uno scatto impersonale
di tagliola. io spero che qualcuno
le riservi una frattura da quest’ansa
di miseria. (al male non c’è cura)
 
 
 
 
 
 
io faccio da me. perché un avvocato
non ha problemi, li risolve. e poi
ci sono i soldi. quasi tutto si
riduce a questo. separazioni,
società, rapporti di lavoro,
denunce mascherate da ristoro
di un principio. la riparazione
è questione di moneta.
basta l’offerta giusta. incredibile
ma semplice, comporre un contenzioso.
dove non può bastare la logica
normata, può soddisfare un obolo.
dispensa in questo mondo
più giustizia il facoltoso.
(per quanto appaia odioso)
 
 
 
 
 
 
eppure certi crimini inaspriscono
oltremodo. bisogna mantenere
la colpa nel banale, non diventare
un caso. perché la gente avverte quel
bisogno di annientare sé stessa nei
suoi spettri, nel sangue primordiale.
un male complicato o troppo sciocco
si dimentica. svanisce un po’ più in fretta.
se poi è un malinteso vallo tu a
spiegare al mondo (nessuno ti dà retta.
il rito è nella carne,
e un sacrificio è sempre più profondo)
 
 
 
 
 
 
e con un solo scatto separarsi
dalla muta. lo strappo del serpente
dalla pelle inadeguata, conosciuta
come ecdisi. e dire che un istinto
forse insolito mi spinge a conservare
la cuticola, il momento di torsione,
la roccia che declina qualche sciocca
nostalgia. per crescere e attecchire
non conosco altra maniera (o meglio
dovrei dire sopravvivere alla smania
di un passato che t’inchioda ad una
morte un po’ più vera)
 
 
 
 
 
 
giochiamo per mestiere col linguaggio,
le parole, incarnando le richieste
di una parte (e controparte). dipende
dalla logica del merito, dell’etica,
in fondo altre parole che tappezzano
(scarniscono) i fatti, le condotte,
presupposti e conseguenze.
ma non siamo immorali (l’apparenza,
la parvenza) non siamo delegati
di catastrofi annunciate. perché,
è bene dirlo, formali ma accorati:
reagire alle sconcezze con sconcerto
inaspettato, se il fatto non può essere
spiegato. (l’hai appuntato?)
 
 
 
 
 
 
e appunto esiziale è una parola,
ma ne è molte: che porta un grave danno,
rovinoso, assoluto (exeo,
exis, exitum – uscire, andare fuori)
da qui andare in guerra, salpare
e anche sfociare. sorgere, apparire,
nascere, innalzarsi. spargersi, riuscire.
ma anche liberarsi, sottrarsi, divagare,
e infine – terminare, partire, oltrepassare.
un esito qualunque, e dunque il più
fatale. capite, che disastro? e noi
che edifichiamo con le lettere il
diritto. (magari si potesse
col silenzio, con il gesto che non
può essere scritto)
 
 
 
 

Per concludere, è necessario tentare di chiarire la posizione di questo libro nell’attuale panorama letterario italiano: vorrei riprendere il concetto di io che si inclina, introdotto dalla Cavarero e ripreso dalla Borio: «La lirica che cerca la conoscenza […] ha invece ben presente che lirica non vuol dire solo espressività, ma consapevolezza etica di un limite individuale. […] L’io si inclina: si piega rispetto alla propria centralità egocentrica, definisce un nuovo modello di soggettività che è aperto alla relazione». La ritengo un’ottima definizione, che non solo può aiutare a comprendere meglio il lavoro di Famularo, ma anche a incasellarlo nel panorama cangiante italiano, e soprattutto tra quella sfilza di scrittori che cercano di auscultare il mondo e interpretarlo mescendo la prospettiva di culture diverse. Potremmo dire, infine, che l’apertura alla relazione, in questo libro, è rappresentata proprio dalla contaminazione filosofica e stilistica di due culture differenti, che rivela, oltretutto, uno stato di conflitto, ovvero il cercare di mutuare quel saper fare per sottrarsi alla nevrosi. Questo non può che rivelare uno stato di precarietà, dato anche dalla fluidità dell’io, o meglio dal suo essere in situazione.

dalla postfazione di
Luca Cenacchi