Fabrizio Bregoli


 
 

Michele Paoletti intervista Fabrizio Bregoli

 

Le cose non ci pensano scrive Fabrizio Bregoli, come se le cose, dotate di una propria volontà, fossero in grado di determinare la loro identità, ribellandosi al fine puramente utilitaristico assegnato loro dall’uomo. E questa loro unicità si manifesta in un rovesciamento della prospettiva: il gesto, l’utilizzo determina la loro esistenza, prima di farle ritornare al loro santo anonimato. Anche le case sembrano avere un atteggiamento ostile nei confronti di chi le abita, dimostrano maggior fiducia nei confronti degli oggetti ammucchiati nelle stanze, nei chiodi, nelle sagome lasciate da quadri e mobili, in quello che resta. Un gioco di sopravvivenza dunque tra l’uomo e gli oggetti, tra le mura e la vita, una partita dall’esito inesorabile nonostante siano proprio le pareti di casa il luogo dove il tempo non ha coniugazione, dove non serve volgere i verbi al futuro, ma è sufficiente vivere il momento presente, stare.

 
 

Questa nuova raccolta in costruzione ha un titolo particolare: Amba Alagi.

I testi sono per l’appunto selezionati da una silloge, o come preferisco chiamarlo un poemetto per frammenti, a cui ho scelto di dare come titolo Amba Alagi in onore della persona che lo ha ispirato, una zia materna recentemente scomparsa che per gioco, per la carnagione scura della pelle ed i tratti somatici che rendevano credibile l’inganno, era solita raccontare di essere di origine abissina, con le più favolose ed ardite ricostruzioni sulla sua nascita.

In realtà quasi nulla in Amba Alagi è biografico, ma alterato, drogato come per il silicio nei semiconduttori, per poter amplificare il segnale, il senso. Amba Alagi diventa per estensione il luogo della scomparsa ma anche della reinvenzione di sé, lo spazio inesplorato ed inconoscibile che ci attende, ma pure il luogo della disfatta e della resa, la maceria d’un impero di cartone.

Amba Alagi dunque come il luogo dell’annientamento e dell’annullamento che ci riserva la nostra condizione d’uomini – di organismi biologici e senzienti – contrapposti agli oggetti, inanimati ed anonimi, che hanno la capacità di sopravviverci, restare indenni al giogo del tempo. Ma Amba Alagi anche come spazio del riscatto, liberazione dal ricatto del mondo che, denudato da qualunque componente finalistica od utilitaristica, obbliga l’uomo a doversi confrontare con se stesso, senza alibi consolatori.

 

Gli oggetti in questi testi mostrano che la loro capacità evocativa ha un limite come fosse impossibile conservare i ricordi per più di un certo tempo. É così per te?

Gli oggetti, come dicevo sopra, hanno rispetto all’uomo il privilegio di poter durare, rimanere come testimonianza o ricordo di chi li ha costruiti, usati o vissuti. È l’uomo che assegna a loro un valore che va al di là della loro pura consistenza materica, dell’uso a cui sono destinati o per cui sono stati concepiti: l’uomo li trasforma naturalmente in un suo traslato, sperando di poter affidare loro l’aspirazione sua più recondita, poter durare oltre il limes naturale imposto dallo scorrere e dallo scadere del tempo. Non diverso è, estremizzando, per la parola poetica che aspira a durare, permanere ben oltre l’occasione che l’ha determinata o l’uomo che l’ha scritta.

Tuttavia accade che l’oggetto rivendichi il proprio anonimato, giorno dopo giorno perda la sua familiarità con gli uomini che lo hanno vissuto, ritorni alla propria condizione originale di materia nuda, perché la memoria può arrendersi, venire oscurata dall’impellenza del presente che vuole essere famelicamente vissuto, unico tempo possibile. L’oggetto allora ci inchioda al nostro stato di pura accidentalità ed irrilevanza e, paradossalmente, ci consente di rinsavire, riscoprirci nel rapporto con l’altro da noi.

 

Sembra che l’alternativa ad un futuro, reale o immaginabile, sia un presente in cui si continua a rimandare (non ancora, non adesso).

Ciò che l’uomo cerca sempre di rinviare è la coscienza circostanziata della propria fine perché averne piena consapevolezza condurrebbe inevitabilmente all’inazione, sovvertirebbe l’ordine costituito così come la civiltà occidentale l’ha definito, la sua sovrastruttura. L’uomo, immerso per natura nel tempo, è sempre alla ricerca di una possibilità d’uscita dallo stesso, il che lo porta ad esiti spesso diversi e contrastanti (edonismo, pessimismo, cinismo, opportunismo e via dicendo). Anche la fede religiosa in definitiva è una di queste forme, se vista come assunto di una dimensione immutabile al di fuori della fisica quadridimensionale dello spazio-tempo.

La varietà e la complessità dei tempi verbali nasce proprio dalla volontà di eludere e spiazzare il tempo relegandolo nella dimensione dell’attesa, della possibilità, dell’avvenuto, del possibile, documentandone l’impersonalità dell’accadere come per il gerundio oppure creandogli un cordone sanitario come avviene per gli infiniti, che ne sono una specie di anestetico, epoché dal tempo circostanziato. Gli avverbi di tempo ci vincolano invece alla fattualità: per questo è molto difficile usare termini come “sempre”, come “mai” – non è possibile contraffarli, sono lo specchio fedele delle cose. Come dovrebbe essere la poesia…

 
 
 
 
basta un pugno di segatura per fermare tutto
(Luigi Di Ruscio)
 
Le cose non ci pensano. Le tedia
il nostro agire d’uomini, ridurle
ad appendice, semplice strumento.
Hanno l’antica nobiltà dell’attimo
un’araldica di gesta ovvie, minime.
Ma pure un piatto sbreccato, una spilla
 
un guanto liso, un pettine rivendicano
talvolta dignità a esistere, intrudono
nella geografia consueta di anni
 
la deriva d’un continente prossimo.
Così prendono nome dalle dita
che le strinsero, l’azzurro dei gesti
che le intrisero, quel volto slabbrato.
Lo rendono affrancato dal suo nulla.
Dopo, tornano al loro buio buono
al santo anonimato dell’oggetto
nell’assoluto garbo del silenzio.
 
 
 
 
E ripetevi non ancora, non
adesso – e intendevi una desinenza
nuova, tu che temevi i congiuntivi
quel loro vivere solo d’ipotesi,
e il futuro, buono come esercizio
scolastico, a rinviare sempre a un dopo.
I verbi e quel loro vizio: alterare
le radici, sovvertire grammatiche
quel poco che trattiene a terra certa.
Preferivi gli avverbi – non ancora
non adesso – Schietti. Immodificabili.
 
Ti sentirai a casa
dove il tempo non ha coniugazione.
 
 
 
 
Le case non ci accolgono. Rinnegano
i passi che le persero, le mani
che v’incisero i muri tacca a tacca
con l’irruento crescere dei figli
ed i volti ammansiti alle finestre
da un alfabeto minimo di luce.
 
Trattengono di noi la sottrazione
l’ambiguo marchio della nostra diaspora.
Preservano la nudità dei chiodi
sagome annerite di quadri e mobili
relitti di giocattoli. Così
dimenticano i corpi, il loro oltraggio.
 
 
I testi sono tratti dalla silloge inedita “Amba Alagi”