Controtempo – Enza Silvestrini


Controtempo - Enza Silvestrini

Controtempo, Enza Silvestrini (Oèdipus, 2018)

Una tacita, intima alleanza si stringe tra chi racconta una storia e chi ascolta, è questo il primo segno elargito dalla raccolta di poesie Controtempo (Oèdipus, 2018) di Enza Silvestrini. Non si può prescindere infatti, nell’affrontare la lettura, dal verso virgiliano quamquam animus meminisse horret (dal II libro dell’Eneide) posto in esergo al testo di apertura, e sigillo all’intera opera. Un frammento che allude in primo luogo a una devozione amorosa, l’abbandono alle parole dell’altro, così come avviene tra scrittore e lettore, entrambi solitari e colmi del proprio vissuto eppure rifusi nei reciproci mondi. Didone chiede di ascoltare dalla voce di Enea il racconto della rovina di Troia, quel che segue è un duplice atto d’amore, da un lato il desiderio di conoscere l’animo altrui fin nei recessi più oscuri, dall’altro l’accoglimento e la disposizione a ricordare nonostante il dolore che questo comporti. Perché più temibile di ogni sofferenza è la perdita del ricordo, ovvero la possibilità di rievocare il passato e ridargli vita attraverso le parole.

Ora il libro apre le sue porte, già nei primi tre versi si schiude un nucleo di senso, «poco a poco / il mondo scompare / inghiottito dal buio nulla», e poi «pallido come un’ombra / e noi tutti lo siamo / solo alcuni più di altri // mi porto qualcosa che non sia perfettamente franato / c’è bisogno di una radice da piantare in esilio» (poco a poco). Sono tutte qui le ragioni della scrittura, la consapevolezza del nostro destino di dissoluzione e tuttavia la necessità di contrastare l’oblio con l’affermazione di una traccia, qualunque sia il modo escogitato da ognuno per saldarsi e salvarsi.

Delle tre scansioni del libro Destinati ad altri mari comprende i versi che attingono al vissuto familiare per farne condizione universale della perdita. L’esperienza della malattia di Alzheimer della madre scardina i parametri relazionali e affettivi e impone un quotidiano confronto con la dispersione progressiva dei ricordi, lo sfaldamento del tempo comune, «così il tempo ha smesso di girare / è sempre qui è sempre ora» (così il tempo ha smesso di girare). Uno dei motivi di più acuta sofferenza per chi assiste all’avanzare della malattia nel corso dei giorni (e degli anni) è il senso di estraneità, la diversione estrema dei luoghi della mente, «in questo nuovo continente / dove approdiamo / per effetto di venti contrari / […] / tu resti centro e sei ignota» (si precipita poi). Si tenta di arginare l’ombra, di ristabilire l’ordine delle cose, di fornire dati e appigli alla memoria per ricostruire la verità dei fatti, ma ogni intesa è di breve durata, ogni sforzo presto vanificato, «[…] si sparpagliano / le parole di adesso le parole di allora / i dadi vinti dalla nostalgia» (sminuzzi il cibo). La coscienza sembra sparire dietro un velo oscuro, ma forse è solo una vita con una logica diversa, forse siamo solo inadatti a percepirne il senso. Quel che conta perdura nel legame d’amore tra madre e figlia, a contrasto con la separatezza, o la lista di oggetti e nomi dimenticati: «mi darai nome ancora una volta / ma sarà di qualcuno marginale / e allora così slegati estranei / ci ameremo di più» (verrà un giorno).

La sezione centrale Controtempo, che rimanda al titolo del libro, porta le riflessioni dal quotidiano delle stanze familiari al tempo dilatato della storia e del mito. L’espressione controtempo potrebbe evocare uno scorrere in direzione contraria, un andare a ritroso, oppure è l’idea stessa del tempo lineare a essere capovolta, accogliendo una visione simultanea di sensazioni e ricordi del passato come fossero vicini, attuali, in definitiva viventi: «tra queste rovine / da diversi secoli sono tutti morti / spetta a noi riportare qualche segno di vita / […] / si incrociano reperti e mosaici / sbiaditi dalle intemperie / non facciamo che ricostruire / accavalliamo ipotesi felici» (tra queste rovine). Nei versi di questa sequenza a prevalere è un sentimento di pietas per il destino dell’uomo, capace di opere d’immensa bellezza e di altrettanto grandi distruzioni, comunque soggetto al lavorio incessante dei secoli, «saremo anche noi rocce disfatte / pulviscolo piuttosto / aperture di pensiero improvvise / e mi addolora la mia sorte / quella che sopporto / da migliaia di anni / come tutti in fondo» (parlo con le pietre).

Nella poesia di Silvestrini la malinconia è un sottofondo costante, ma non prende mai il sopravvento né stinge in rassegnazione. Lo sguardo segue la vicenda umana, con uguale benevolenza contempla fuochi e sparizioni, l’invito a non cedere è un misto di fragilità e di fierezza: «si organizzano ronde / per tenere il fuoco vivo / ogni tanto dalla ronda / qualcuno scompare / e si procede veloci alla sostituzione / per impedire che il fuoco si spenga / bisogna senz’altro imparare a vivere» (ognuno reagisce come può). Il culmine della sezione si raggiunge forse nei versi di portami via al riparo dal vento, Silvestrini compone una trama dove natura e desiderio, vestigia del passato e forme del presente si avvicendano e si completano, una concordia di ritmi e immagini che rammenta le atmosfere poetiche di Sylvia Plath, «mi accorgo d’improvviso / che qui troverei milioni di tane / ma di questo pensiero / la libertà mi spaventa / come i sentieri troppo isolati // quando mi stendo / il prato diventa una tomba / di fili d’erba rissosi e piccole vite».

La sezione Forme erranti conclude la parabola tematica del libro, la poesia s’inoltra sulla soglia tra l’essere e il non essere, s’interroga su vita e morte come passaggi di stato dell’esistente, prova a immaginare, senza indulgenze né patetismi, ciò che a nessuno è dato conoscere, «chissà cosa si prova / in questo fermento di libertà / se c’è un principio / di bellezza o di gioia / in questo non essere // per noi che dell’essere / abbiamo piene le tasche / appare il punto nodale di ogni esistenza / ma questa prospettiva già ci divide» (ti immagino così svaporato). Non siamo che forme in perenne mutamento, tanto raccontano i versi con il loro moto oscillatorio, laddove l’incertezza del confine diviene rispecchiamento di un’indole meditativa, «eri già in un limbo / indeciso da quale parte stare / non eri pronto alla resa / ma era tardi per ogni cosa» (l’alba è il confine dei mondi). Non c’è raziocinio sufficiente a difendere dall’assedio dell’ombra, da un assillo che sembra negare speranza, «che cosa tu poi conserverai di te stesso / è la domanda / pronta a resistere a ogni logica umana / se ci sarà ancora memoria del nome» (che cosa tu poi conserverai di te stesso). La domanda rimane sospesa nell’aria, nessuna voce si leva a dare conforto, eppure qualcosa di simile a una risposta si cela nel dettaglio inavvertito, nelle tracce di minime vite, «un ragno si avventura fin dentro casa / per scoprire che il mondo / ha ancora molto da offrire / in termini di tane e prede lucenti» (appari tra le foglie).

Daniela Pericone

 
 
 
 
quamquam animus meminisse horret
(Eneide, libro II)
 
poco a poco
il mondo scompare
inghiottito dal buio nulla
 
prima vengono i ricordi
soffocati da fumo acre
stordimento delle voci e degli ultimi respiri
 
la memoria si rifugia
in luoghi sempre più antichi
ritorno bambino tra le braccia
della madre assente
giovinetto nei lunghi allenamenti
o custode del telaio bianco
torno liquido
ancora disperso
esitante sulla strada da fare
 
anche i nomi
tutti i nomi
quelli delle cose
dell’amore dell’ira o di ciò che ne resta
vanno via in qualche botola lontana
che non riapro mai
ogni gesto è nuovo
smottamento veloce di residui vaganti
i movimenti dimenticati
nel loro stesso compiersi
 
e quando per tre volte
il vuoto impetuoso mi respinge
uccidendo anche l’illusione di te
la salvezza sarebbe non avere alcuna salvezza
 
non voglio più vedere il presente
e il presente è
questo rogo ardente che dilania la città
le urla così flebili
appena un sussurro
le foto o le statue degli antenati
il peso accatastato sulle spalle
delle quattro ossa di mio padre
che gli anni e la miseria hanno reso svagato
pallido come un’ombra
e noi tutti lo siamo
solo alcuni più di altri
 
mi porto qualcosa che non sia perfettamente franato
c’è bisogno di una radice da piantare in esilio
 
la pretesa di esser vivi in questo universo di morti
incalza lentamente
imbarcarsi di nuovo e partire
trovare terre da coltivare
altri uomini da uccidere
e lasciare traccia di sé
 
poi il mare vibra incolto
 
 
 
 
 
 
si precipita poi
con un tonfo improvviso
basta un qualsiasi incidente
un osso logorato
una parola inascoltata
si sbriciolano rumorosi
 
in questo nuovo continente
dove approdiamo
per effetto di venti contrari
dall’otre aperto spirano furia
e improvvisa quiete
tu resti centro e sei ignota
 
 
 
 
 
 
l’anima se ne va confusa
in questo limbo di sopravvissuti
echi di questo o quell’altro mondo
tuonano all’orecchio sbigottito
emergono frammenti di facce
storie mobili e scomposte
assapori la libertà insensata e divina
di posizionarli a modo tuo
le vie si fanno irregolari
nessuno può raggiungerti
 
mi batto in difesa dell’esattezza
provo a condurti sulla verità dei fatti
adduco prove minuziosi dettagli
riposiziono date e connessioni logiche
 
tu sembri convinta
tra le distrazioni del bucato e della pioggia
e per qualche istante
il mondo ridiventa uno
ma poi crudelmente ricominci la storia
di questo o quello
incurante di tempi e luoghi
fatti e circostanze
non c’è più modo di ritrovarsi di nuovo
 
 
 
 
 
 
tra queste rovine
da diversi secoli sono tutti morti
spetta a noi riportare qualche segno di vita
così ci muoviamo lenti per toccare qualcosa
che sappia di erba
l’odore selvaggio della rucola
abita qui da tempo
penetra le narici
 
settembre ci rende già assetati di sole
riusciamo appena a immaginare
i fasti di una volta
quando ancora mi fotografavi
 
si incrociano reperti e mosaici
sbiaditi dalle intemperie
non facciamo che ricostruire
accavalliamo ipotesi felici
 
 
 
 
 
 
portami via al riparo dal vento
dove il bosco è sontuoso di alberi fitti
della statua acefala è rimasto un bel corpo
di muscoli e vene levigati dal marmo
 
una torma di ombre
va spargendo i suoi lai
e in questo punto del prato
dove l’erba è più rada
si ammassano formiche speranzose
a caccia di briciole o cadaveri ambigui
 
mi accorgo d’improvviso
che qui troverei milioni di tane
ma di questo pensiero
la libertà mi spaventa
come i sentieri troppo isolati
 
quando mi stendo
il prato diventa una tomba
di fili d’erba rissosi e piccole vite
 
 
 
 
 
 
il fatto che sia già primavera
è una deduzione di piume
tentativi di teneri voli
cadono in tanti
dalla sommità dei nidi
e forse la specie
non conosce il dolore
 
 
 
 
 
 
ti immagino così svaporato
a resistere tenacemente nell’aria
ancorato a qualcosa di solido
per sottrarti a questa incontenibile flessibilità
che ti sospinge da tutte le parti
 
chissà cosa si prova
in questo fermento di libertà
se c’è un principio
di bellezza o di gioia
in questo non essere
 
per noi che dell’essere
abbiamo piene le tasche
appare il punto nodale di ogni esistenza
ma questa prospettiva già ci divide
 
 
 
 
 
 
appari tra le foglie
dei radi alberi della villa
dove avrei tante volte potuto incontrarti
ma dove
non ti ho incontrato mai
 
un ragno si avventura fin dentro casa
per scoprire che il mondo
ha ancora molto da offrire
in termini di tane e prede lucenti