Considera quel che è stato consumato – Giovanna Rosadini

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foto di Dino Ignani

 
 
Considera quel che è stato consumato
il tempo perso e quello passato
per ritrovare una coerenza dell’insieme
un luogo, un viso, qualcosa che tiene
ancora legati a ciò che siamo stati,
il nostro allora fatto di ricordi usati,
fantasmi logori che ancora infestano
la mente, ci scorrono nel sangue,
e parlano un frastuono di altre lingue.
 
Poi, quando il fuoco avrà ingoiato tutto,
saremo estinti, saremo cenere,
saremo linfa per un nuovo frutto,
limpida e chiara a disegnare
nuove trame, rovescio esangue
che si apre alla domanda,
riflesso implicito che svela
una presenza, nudo paesaggio
di cui non si può più far senza…
 
da Fioriture capovolte (Einaudi 2018)
 
 
 
 
 
 
Di quali parti ci componiamo, quali
conserviamo, e quante sparse nei luoghi
che ci hanno avuto – piccoli incagli
o membra sbranate, o solo ombre sfocate.
Nel giardino punteggiato di lucciole
il pitosforo e i fiori bianchi e spessi
degli agrumi gonfiano l’aria immobile –
e ad ogni primavera ripeti il tuo gesto,
sfiorandomi la guancia di sorpresa
mentre la luna mi rimanda un altro viso.
 
Da Il numero completo dei giorni (Aragno 2014)
 
 
 
 
 
 
È la sapienza del corpo ad essersi
smarrita, l’implicito retaggio
che governa i movimenti, perduto
quel ventotto maggio: sabato fatale.
Dissolversi, ritrovarsi diversi (per noi
rimasti in vita, in qualche modo
usciti dall’oblio, e restituiti al nostro Dio).
È non sapere il gesto elementare,
non riuscire più a mangiare, cercare
di capire come si usano le cose, il modo
usuale divenuto remoto ed anormale,
che ritrovare pescando in fondo a recessi
di memoria, chiedendo agli altri esempio,
recuperando a poco a poco la mia storia –
adattandola a chi sono diventata, alla mano
rigida e impacciata, a questa strana fragilità
ormai conseguita, nuova sostanza che andrà
affrontata… Saprò adattarmi senza perdere
me stessa, senza farmi sopraffare… Resistere
e non risprofondare nell’indistizione,
tenendo testa alla condanna, alla maledizione…
 
da Unità di risveglio (Einaudi 2010)
 
 
 
 
 
 
Le cose sono senza suono,
si muovono in un limbo strano
e nel silenzio non rimane niente
che possa fare presa sulla mente
 
parole usate, cosa mai saremo
se non questo, scivoleremo
fra ricordi mai fissati, amati
prima ancora di averli trovati
 
nessuna gioia senza ottundimento
e non c’è pena senza sfinimento –
depositarsi al fondo della vita,
sedimentare attesa infinita…
 
da Il sistema limbico (Atelier 2008)
 
 

Questi quattro testi di Giovanna Rosadini, presi dalle sue ultime pubblicazioni ordinate dalla più recente alla prima (nel tempo ho già parlato dei suoi libri Unità di risveglio, Il numero completo dei giorni e Fioriture capovolte), raccontano un’evoluzione del proprio stare al mondo non in quanto individuo ma come essere umano, coscienza che si rapporta con la propria esistenza e le sue composizioni, smarrimenti, attese, consumazioni. Una consapevolezza senza sconti e che sempre più si confronta con un pensiero in fieri, un’analisi del corpo della vita. Ci si concentri ad esempio sugli estratti (questa volta in ordine cronologico):

 


nessuna gioia senza ottundimento
e non c’è pena senza sfinimento –
depositarsi al fondo della vita,
sedimentare attesa infinita…

 
(2008)
 
 
 
 
È la sapienza del corpo ad essersi
smarrita, l’implicito retaggio
che governa i movimenti, perduto
quel ventotto maggio: sabato fatale.
Dissolversi, ritrovarsi diversi

[…]Resistere
e non risprofondare nell’indistizione,
tenendo testa alla condanna, alla maledizione…

 
2010
 
 
 
 
Di quali parti ci componiamo, quali
conserviamo, e quante sparse nei luoghi
che ci hanno avuto – piccoli incagli
o membra sbranate, o solo ombre sfocate.

 
2014
 
 
 
 
Considera quel che è stato consumato
il tempo perso e quello passato
per ritrovare una coerenza dell’insieme
un luogo, un viso, qualcosa che tiene
ancora legati a ciò che siamo stati,
[…] riflesso implicito che svela
una presenza, nudo paesaggio
di cui non si può più far senza…

 
2018

 

Dall’iniziale depositarsi al fondo della vita (2008) si passa al resistere / e non risprofondare nell’indistizione (2010), fino al ripetere, a quattro anni di distanza, l’immagine del viso che diventa perno per prendere atto della propria essenza nonostante i cambiamenti, di ciò che resta nonostante la vita stessa: e ad ogni primavera ripeti il tuo gesto, / sfiorandomi la guancia di sorpresa / mentre la luna mi rimanda un altro viso (2014), per ritrovare una coerenza dell’insieme / un luogo, un viso, qualcosa che tiene / ancora legati a ciò che siamo stati (2018).

C’è in Rosadini una continua inquietudine soffusa, una brace calma che tende due estremi ben definiti: la difficoltà ad accettare ciò che perdiamo di noi, e al contempo la sempre maggior accettazione della perdita che diventa osservazione di ciò che resta: Poi, quando il fuoco avrà ingoiato tutto, / saremo estinti, saremo cenere, / saremo linfa per un nuovo frutto (2018).

Ed è questo significato la cifra della poesia di Giovanna Rosadini e la feroce profondità della sua analisi che ci consegna un’evoluzione, una misura del tempo psicologico ed emotivo che è passato e cambiato. L’attesa infinita che sedimentava (2008) diventa una presenza, nudo paesaggio / di cui non si può più far senza (2018) ma solo grazie all’acquisita consapevolezza dello smarrimento/dissoluzione del proprio corpo/io, quella condanna/maledizione (2010) che diventa ripetizione di un gesto, sorpresa (2014) a scoprire che anche nella perdita c’è un germoglio, un qualcosa che si conserva e un qualcosa che ritorna, anche se diverso.

Rosadini negli anni, con uno stile riconoscibile e sempre più limpido, affinato, scopre che c’è qualcosa che tiene / ancora legati a ciò che siamo stati (2018) e che quindi la perdita non è mai perdita, ma trasformazione. Che la vita è fatta di necessità di trasformazione quanto di perdita e che quel fondo della vita (2008) dopo dieci anni si scopre essere (si perdoni la ripetizione, necessaria) nudo paesaggio / di cui non si può più far senza (2018).

E la chiave di svolta è proprio quella presenza che travalica i limiti dell’io e del tu. Che non sono mai, come si è detto, un io e un tu intimi e/o privati, ma forme dell’essere umano in quanto tale e in quanto relazione con l’altro. È un esistere anche se non nella forma che si voleva passando dalla difficoltà ad accettare la perdita di parti di sé all’accettazione e scoperta di sé e della coerenza sottesa nel tempo.

Perché inevitabilmente, nel lungo termine, si scopre esserci una coerenza, un percorso che subiamo anche se spesso prescinde da noi stessi. E il nostro esserci e restare diventa l’unica cosa importante. Questo ci dicono i testi di Giovanna Rosadini sottolineando, a dieci anni di distanza, un elemento chiave di questa consapevolezza del vivere:

 


parole usate, cosa mai saremo
se non questo, scivoleremo
fra ricordi mai fissati, amati
prima ancora di averli trovati

 
(2008)
 
 
 
 
il nostro allora fatto di ricordi usati,
fantasmi logori che ancora infestano
la mente, ci scorrono nel sangue,
e parlano un frastuono di altre lingue

 
(2018)

 

La vita è composta dall’oggi quanto dalle parole e dai ricordi usati. E in questo termine usati c’è la consapevolezza di una storia intercorsa, di una vita passata e vissuta. Che diventa pregna di significato, coerente, proprio in virtù del suo essere accaduta. Nonostante le difficoltà, le perdite, gli smarrimenti. Ciò che resta dell’individuo, esso stesso usato, è una linfa per un nuovo frutto, una nuova trama.

D’altronde Giovanna stessa, in una straordinaria intervista uscita alcuni anni fa su Zest (Giovanna Rosadini – sulla poesia) indicò la poesia come un’esperienza del mondo:

Per quanto mi riguarda, dovendo dare una definizione di poesia (sono incerta se mantenere il maiuscolo della domanda, a dire il vero non mi viene), non posso, e in ciò mi riconnetto alla prima definizione di Raboni, sviluppandola ulteriormente, non identificarla con un’esperienza del mondo. La poesia, per me, è un’esperienza del mondo. Il poeta esperisce il mondo attraverso il linguaggio, in particolar modo quel linguaggio intensificato e soprassaturo proprio della poesia, che del mondo può e sa cogliere l’essenza, i sottintesi, le sfumature, e traduce la sua individuale e irripetibile esperienza per il lettore. […] La mia poesia è un modo di essere. È un modo, come ho detto sopra, di stare al mondo. L’unico, probabilmente, di cui sono capace.

da Zest
21 aprile 2016

 

Alessandro Canzian