Congiungimento – Ilaria Caffio

Congiungimento, Ilaria Caffio (Spagine Poesia, Associazione Fondo Verri 2017)

 

Dalla calda terra del Sud con le sue coste marine e i suoi cieli accesi, dalla sua forza mitica e magica, sgorga Congiungimento, felice opera di esordio della giovane poetessa pugliese Ilaria Caffio. Come la Signora del Labirinto, l’autrice ci conduce allo spettacolo assoluto della tragedia esistenziale, al suo dramma sacro, in un’ascesa più che discesa agli Inferi, ci precipita in un baratro che conduce inaspettatamente al cielo. Articolata in quattro parti coerenti e strutturate, già dal titolo questa silloge annuncia il suo telos: il convergere delle antitesi, il Congiungimento degli opposti. […] È il Sud mitico e prodigioso a prendere le redini qui, con le sue radici greche e la sua ritualità primitiva consolidata e stratificata. Si svela in questa sezione l’evocazione cromatica di questa “Terra del rimorso” assolata e orientale, in cui si concentra il versamento ematico del senso, dai vasi sanguigni della phýsis. Mentre la madre, sottratta alla dimensione umana, viene ritualmente consacrata alla sfera soprannaturale, la sfera divina viene profanata.

Con queste parole Flaminia Cruciani (della Cruciani abbiamo recensito il suo Semiotica del male) introduce l’opera d’esordio di una giovanissima Ilaria Caffio (nata a Taranto nel 1991 è laureata in filosofia): Congiungimento (Spagine Poesia, Associazione Fondo Verri 2017). Un’opera che per vicinanza geografica (la Puglia) quanto per vicinanza tematica riporta alla mente il pluripremiato Altissima miseria di Claudia Di Palma (Musicaos 2017). Non tanto per (improbabili) influenze tra un’opera e l’altra quanto per affinità di linguaggio e simboli. Claudia infatti scrive:

 

Io condivido la mia fertilità
e tu avvicini il seme. Insieme
costruiamo sentieri e iniziamo
ogni istante. Facciamo di nuovo
il principio con i corpi che siamo,
i verbi che abbiamo. Questa carne
nuda è il principio del mondo
se come verbo si pronuncia
fra le tue braccia. Offro la mia fertilità.
Tu avvicini il seme e ascolti.

 

Mentre Ilaria:

 

Mostrerò il nutrimento
come la perseguitata dagli occhi feriti
come l’Addolorata fra la moltitudine
succhierò la composizione del tuo organo
ὀξύς gremito gonfio
ad ogni colpo
fra il mio trono e la mia placenta
con i ginocchi dolenti
rendendo grazie alla comunione–
ti compio amore
ti intingo nel mio canto.

 

E più avanti:

 

Ho dato il corpo alla terra
slacciato diametri di gambe e braccia
con testa sospesa con tagli profondi ferita d’eterno.
Becchi per un solo boccone ali per un solo volo ho
sfamato la sorte dal crepuscolo
in sordina negli idiomi più nobili
divorando il creato demente nel vaso
notturno nella sfera non detta.
Poi il mio corpo come fiera ho servito
sul palmo di un uomo
chiamandolo in ascolto e in veduta questo
corpo ho scandito
in avanzata misera e stretta
in bocca alla volta lanciata in un volo
ho taciuta l’anima in preghiera.

 

Alla medesima maniera si possono paragonare testi che parlano dell’idea della madre:

 

Claudia:

 

Madre, disangolata figura
d’acqua, laddove il fuoco
s’inerpica e si perde.
Materna per ogni naufragio
che nella tua sapiente forma
di deforme bocca, si spezza.
Spaventosa fluidità e lontanissimo
fondo, grembo messo a fuoco,
vergine ad ogni solco,
composta come mare e voce.
Madre, la tua trasparenza
è per chi ti raccoglie.

 

Ilaria:

 

Non mi riconosco in grembo a mia madre
per queste strade
come l’acqua che consuma la pietra
io mi sono aliena.
La città fa l’amore con le dita alte dei turisti
con la crema e i cappelli
ma io chi sono.
Sfioro col mignolo le ringhiere arrugginite
il brodo di parole allestito per il mercato
la fiera del pesce la fiera dei giochi
come fimmina al rogo
stermino l’abecedario irrisolto del tempo.
Cosa appare nella piazza se non
la pietà di accogliermi di nuovo nel mattino
svenendo a calpestare il selciato.

 

E poco più avanti nel libro, sempre Ilaria:

 

Madre amore mio
se fosse vera questa vita
creata per rami senza radici
se ci fosse un ritorno…

 

E testi che fanno riferimento all’ambito della preghiera:

 

Claudia:

 

Ombra, maturo frutto, cadi
da un raggio e ti spargi nel mondo.
E rendi esatto il tutto.
Tu sei l’utero che raccoglie
e sprigiona la luce, che confina
e sovverte, disegna e poi
scompone una figura. Ora ti sposi,
ora ti separi da un volto.
Mi resti come dentro un segreto.
Un tonfo che diventa preghiera.

 

Ilaria:

 

Sono il germoglio duro
la preghiera la causa
il male il reale
il compenso il digiuno la siccità
la regina di paglia al trono in fiamme
la trave d’argento abbandonata nel deserto
la stella sazia di luce la prigioniera
la donna Giuda che zoppica al bacio della sera.

 

E il succitato testo sempre di Ilaria:

 
Ho dato il corpo alla terra
slacciato diametri di gambe e braccia
con testa sospesa con tagli profondi ferita d’eterno.
Becchi per un solo boccone ali per un solo volo ho
sfamato la sorte dal crepuscolo
in sordina negli idiomi più nobili
divorando il creato demente nel vaso
notturno nella sfera non detta.
Poi il mio corpo come fiera ho servito
sul palmo di un uomo
chiamandolo in ascolto e in veduta questo
corpo ho scandito
in avanzata misera e stretta
in bocca alla volta lanciata in un volo
ho taciuta l’anima in preghiera.
 

Ambedue le autrici, pur essendo molto giovani e pur avendo sensibili differenze l’una dall’altra, percorrono una strada più culturale che personale con il merito di esprimere un particolare approccio al mondo che è contemporaneo quanto legato alla tradizione.

Il corpo è infatti misura di tutte le cose ma non viene mai abbandonato alla liquidità dell’ordinario, viene anzi esposto e vissuto nella profondità del suo essere res (e rappresentazione dolorosamente penetrata) sacra anche nel momento della ferita, del rifiuto (Ilaria dice: E vengo reietta ogni giorno / come la spina dalla rosa, e più avanti Dalla fenditura di donna esala un lamento di sirena). Ignorando a monte non solo la definizione quanto il concetto stesso di obscènus inteso come fuori dalle scene, nascosto. Perché qui tutto è palesato e (si perdoni la necessaria ripetizione) esposto come unica possibilità di esistenza. Un essere esposti per vedere tutto esposto, tutto chiaro nella sua drammatica complessità (tale è la vita in questo mondo). Ogni tipologia di relazione (con persone o cose o idee) si trasfigura in una precisa simbologia non di rado religiosa (Io ingoio la sozzura tragica di dio / che strazia e offende il vuoto che ha partorito e più avanti Ecco Gesù ai piedi del porto / trascina un carretto di buoi mandorle e tè. / Mi condurrà alla croce / ai luoghi del ricordo / mi parlerà d’amore mi parlerà d’amore / con voce elementare) che fa proseguire la vita in quanto ossimoro, in quanto contraddizione di fondo ma non in senso aporetico o insolubile.

Personalmente mi piacerebbe affermare che la poesia pugliese odierna, e nello specifico la poesia scritta da giovani donne, stia cercando in qualche modo di far coesistere corpo e sessualità contemporanei (si noti la relazione che sussiste tra corpo e preghiera nella più volte citata Ho dato il corpo alla terra della Caffio) con una tradizione popolare (il canto per esempio, da ambedue le autrici citato) e religiosa, una sacralità rituale che fino a pochi decenni fa si nutriva di simboli e riferimenti intoccabili (Dio, la madre, la gravidanza). Non possiedo però una visione abbastanza ampia per poter affermare con sicurezza questo ma trovo comunque significativo ricordare i versi di un’altra poetessa leccese, Claudia Ruggeri, morta alcuni anni fa (infinitamente più elevata e geniale, senza nulla togliere a Ilaria Caffio o a Claudia Di Palma):

 

T’avrei lavato i piedi
oppure mi sarei fatta altissima
come i soffitti scavalcati dei cieli
come voce che in voce si sconquassa
tornando folle ed organando a schiere
come si leva assalto e candore demente
alla colonna che porta la corolla e la maledizione
di Gabriele, che porta un canto ed un profilo
che cade, se scattano vele in mille luoghi
– sentite ruvide come cadono –; anche solo
un Luglio, un insetto che infesta la sala,
solo un assetto, un raduno di teste
e di cosce (la manovra, si sa, della balera),
e la sorte di sapere che creatura
va a mollare che nuca di capelli
va a impigliare, la sorte di ricevere; amore
ti avrei dato la sorte di sorreggere,
perché alla scadenza delle venti
due danze avrei adorato trenta
tre fuochi, perché esiste una Veste
di Pace se su questi soffitti si segna
il decoro invidiato: poi che una mossa un’impronta si smodi
ad otto tentacoli poi che ne escano le torture.

(da Inferno minore, Claudia Ruggeri)

 

In conclusione Ilaria Caffio consegna un’opera bella e consapevole di sé e della propria storia culturale evitando in maniera talvolta brillante cadute e ingenuità di altri come lei (quando cita ad esempio la rosa: Voglio stare pulita alla tua origine di rosa / casta annodata / chiedo di stare sulla lingua tua beata […] E capito da cumuli di cenere. / E vengo reietta ogni giorno / come la spina dalla rosa […] La sutura del cuore / a colpi d’accetta si slega / stilla come atto di vanità / il labile profumo della rosa […] Ho infilato le dita nel manto corvino / ho desiderato tacere / vedere nascere la rosa sulle mie ossicine / e farmi spazio nella terra nella terra finire). Consegna non da ultimo una prospettiva personale fondamentalmente positiva, direi addirittura preziosamente ottimista, soprattutto quando si avvicina al concetto di perdono:

 

Riappare
il Mezzogiorno
sul seno risvegliato
un sorso d’acqua alla bocca amara
scava le mie donne nelle tue catene sono
laghi dove si vendono specchi
spazi versati
questi mondi bianchissimi.
Io sono nera e tu rimani- λόγος
fatto grande di ombra fatta misera di fuoco
finalmente perdono.
Che il Bene passi, passi da qui.

 
 

Drizzerò la postura
alla porta dimenticata alla sagoma perdonata
con lo zoccolo duro del tempo.
Il cielo svestito in ruina conterrà questo modo
questo scopo di perdono. Amare
nel mio bel pretesto
un’origine di uomo
nel limbo assolto della mia memoria.

Alessandro Canzian

 
 
 
 

Altri testi tratti dal libro:

 
 
Drizzerò la postura
alla porta dimenticata alla sagoma perdonata
con lo zoccolo duro del tempo.
Il cielo svestito in ruina conterrà questo modo
questo scopo di perdono. Amare
nel mio bel pretesto
un’origine di uomo
nel limbo assolto della mia memoria.
 
 
 
 
Porto le mani al muso
fra naso e mento
forma d’eco sgualcita prima del vociare –
faccio spazio alla sentenza faccio il luogo misterioso
il boschetto della fiaba. Questo gineceo tace
si bonifica al tuo passaggio con le tue sorgenti
con i tuoi venti
ai tuoi occhi erranti. Entra fiore di miele
bocciolo carezzato nella bruma impune
fammi l’amore con la bocca senza indugio – al mio
nascondiglio.
Così si accorciano le lontananze le piogge
si compiono le doglie
e io vorrei sapere tanto tanto
cosa sto facendo qui
al tuo entrare uscire al mio tornare andare
per quasi due secoli – senza estinzione.
 
 
 
 
Intanto l’amore si altera
– oh la melata…
Alla mano dei sumeri sull’accordo antico
è simile all’agiografia del tuo fare
trasformato a insudiciare
il piatto il disincanto o lievito se guida alla crescita.
Scolo dalla lingua-frattanto
profetico raccolto affollato amore
che ti prendo dalla spazzatura
guardami
che ti schiaccio a punta d’ago e ti scavo
come il cucchiaio nel frutto.
 
 
 
 
Sul sentiero verso l’Oreb
ho toccato il tuo corpo molle di vita
il tuo ventre in digiuno ho carezzatoti
ho offerto il fiore vermiglio
preso in promessa
guidato nel volo santo della conoscenza.
E capito da cumuli di cenere.
E vengo reietta ogni giorno
come la spina dalla rosa.
 
 
 
 
Se in questo Centro esiste un luogo buono
congiungerò le mani a forma di felce di spada lucente
minima ladrona in grotta
ricolma del dio infante
congiungerò i granai e le acque terrestri
aliti di vento palmi sospesi
in attesa di pace
congiungerò i corpi distanti negli esili fiati e
l’umanità diminuita prenderò in utero.