Cento poesie d’amore a Ladyhawke – Michele Mari


Cento poesie d’amore a Ladyhawke, di Michele Mari (Einaudi 2007), è uno di quei libri spot che rappresentano una bella esperienza poetica ma che di certo non fanno un poeta. Anche se, in tanta parte del panorama letterario contemporaneo, un volume come questo lascia innegabilmente una domanda: come può un non-poeta scrivere poesie a volte molto più belle e intense dei poeti riconosciuti?

Senza ombra di dubbio Michele Mari è uno scrittore che sa ben maneggiare la parola, che sa il fatto suo insomma, e dà bella prova di sé in queste pagine dense di citazioni quanto di contraddizioni, di armonie ironiche e drammatiche, di attese e promesse che trovano comunque un loro precario equilibrio.

Ma questo è l’amore, in fondo, che Mari esprime in versi ma con piglio da romanziere che non manca di toccare le sfumature più nevrotiche, controverse, tormentate della relazione amorosa umana dal primo verso Chi eri nel mondo dei vivi all’ultimissimo è il fiore che non sfioro.

E in fondo anche il titolo, che dà ragione e direzione alla raccolta, confessa fin dall’inizio la duplice e antitetica natura del sentimento. Un amore tra due persone che non si incontrano mai, seppure innamorate anche per un tempo enorme (trent’anni nel libro). Quando l’uno è umano l’altro è bestia. Quando l’altro è umano questo è bestia. Quasi un’incompatibilità connaturata nel rapporto stesso che crea incomunicabilità, distanza, che però non attenua l’affezione, il bisogno dell’altro.

Un libro in fondo di grande dolcezza questo di Michele Mari, di quella dolcezza vera e difficile che compone lo svegliarsi la mattina, il fare colazione, l’andare a lavorare, il tornare, l’affrontare gli insormontabili e irrisolvibili problemi di ogni giorno.

 

Alessandro Canzian

 
 
 
 
Nella mia testa
c’è sempre stata una stanza vuota per te
quante volte ci ho portato dei fiori
quante volte l’ho difesa dai mostri

Adesso ci abito io
e i mostri sono entrati con me
 
 
 
 
 
 
Ti sei sempre riassunta per me
nei tuoi occhi

Così hai dominato i miei pensieri
sotto la forma dell’ellissi indiana
dove su bianco smalto l’iride
si vetrifica attorno alla pupilla

Così sognarti
è sempre stato guardare da lontano
due fuochi fatui
in un cimitero celtico

Così la tua immagine
è l’ultima che vede di notte il guidatore
prima del frontale
 
 
 
 
 
 
Non ti ho mai visto i piedi
non ti ho mai vist in camicia da notte
non ti ho mai visto lavarti i denti
e dopo più di trent’anni
non ho ancora capito
se questo è un bene
o un male
 
 
 
 
 
 
Come un serial killer
faccio pagare alle altre donne
la colpa
di non essere te
 
 
 
 
 
 
Un secolo fa
in un punto della Death Valley
chiamato liceo
mi hai slacciato il bottone del colletto
perchè ti sembravo un impiccato

Da allora
non ho mai più allacciato quel bottone
nemmeno con la cravatta
però mi chiedo
        se nella tua vita non era prevista la mia
mi chiedo
perchè non hai lasciato
che il cappio facesse il suo lavoro
e io pendessi
in pasto agli avvoltoi
 
 
 
 
 
 
La fiaba degli amanti
cui un maleficio tolse
d’incontrarsi
(donna di notte lei
e con la luce falco
lui con la luce uomo
e nottetempo lupo)
ci piacque tanto che per un bel pezzo
ci siamo firmati Knightwolf e Ladyhawke
finché capimmo
l’inutilità della speranza di ritrovarci insieme
nell’umano
il nostro più ambizioso traguardo
essendo di confondere
il pelo con le piume
 
 
 
 
 
 
Verrà la morte e avrà i miei occhi
ma dentro
ci troverà i tuoi