Approdi / Landings – Sergio Gallo

Approdi / Landings, Sergio Gallo (Arsenio, 2020).

Come viene ulteriormente dimostrato da questo suo ultimo lavoro, in parte inedito (come per il poemetto “Approdi per versi fuggiaschi” che dà il titolo all’intero lavoro) in parte rielaborazione di materiale già incluso in precedenti pubblicazioni (vedi il poemetto “L’occhio di Hubble” già presente in Pharmakon – puntoacapo, 2014), la poetica di Sergio Gallo conferma la fedeltà al suo dettato che porta da sempre l’autore a una scelta assolutamente controcorrente e personale: una poesia in costante colloquio con la scienza, con una pratica coerente a livello di temi e di linguaggio adottati. Non si tratta qui di impiegare il linguaggio scientifico al di fuori del suo contesto più naturale per generare nuove metafore o immagini poetiche ad effetto – con il rischio che operazioni di questo tipo comportano nella direzione dello stucchevole o del forzato, del preconfezionato in laboratorio – ma di poesia sulla scienza e per la scienza che non ha quindi bisogno di un appiglio esogeno a cui fare riferimento e che vive autonomamente dei suoi contenuti, della sua lingua. Lo stile di Sergio Gallo è in realtà piano, a tratti anche colloquiale, senz’altro discorsivo; ha sempre un’impronta di tipo espositivo e argomentativo e in questa matrice di fondo avviene l’innesto di quella terminologia specifica e tecnica che serve a dare ricchezza alla dizione, la personalizza e ne costruisce il timbro più personale. L’ampio e documentato impianto biobliografico, così come il frequente ricorso a citazioni e riferimenti colti, sono a testimonianza di questo modo di procedere consapevole e ben orchestrato.

Eppure il ricorso a una lingua così specifica e precisa si combina in questo lavoro, che ha a tema l’esplorazione spaziale in una sorta di personalissima “cosmic poetry”, con il senso profondo del mistero, della scoperta, della meraviglia bene dimostrati dall’uso peculiare e ricco dell’aggettivazione, come fa doverosamente notare Alfredo Rienzi nella sua prefazione. E naturalmente il tema del viaggio, che è all’origine di tutta la letteratura occidentale (basti pensare, una per tutte, all’Odissea), qui sviluppato andando a sostituire la componente immaginifica e fantastica del mito con i dati oggettivi che si possono raccogliere attraverso il riscontro del metodo scientifico, testimonia che anche da parte di quest’ultimo è possibile suscitare quel senso dello stupore che è innato in ciascuno di noi come membro della specie umana. Si consideri a dimostrazione di questo la descrizione del pianeta Venere, così realistica e capace tuttavia di condurci in un’atmosfera di sogno, ricca di sollecitazioni sensoriali e intellettive: “infernale / mondo ammantato di nubi / d’acido solforico”, “incandescente superficie / immersa nell’oscurità, / sulfurei bagliori arancione”, “infuocati deserti rocciosi / enormi distese laviche / possenti vulcani”. Sergio Gallo dimostra inoltre come, anche ricorrendo a espedienti minimi, quali le frequenti elencazioni e enumerazioni, sia possibile far scaturire questa componente di meraviglia, quasi contemplazione verso la complessità multiforme e sempre imprevedibile dell’universo, “dove / gli approdi noti sublimano / in ipotesi improbabili”. Si prenda in esame, ad esempio, questo passaggio in cui si parla del disco placcato in oro trasportato sul Voyager, in cui sono raccolte le principali testimonianze della civiltà umana, “florilegio” che diventa tale nella versificazione grazie al climax costruito verso dopo verso: “Saluti in cinquantacinque idiomi / dall’Accadico alla lingua Wu. / Una musicale selezione / di diverse epoche e culture: // Bach, Mozart, Stravinskij, Beethoven. / Louis Armstrong e Chuck Berry. /Raga, mariachi, flauti peruviani. // Le note d’uno shakuhachi. / Il canto notturno dei Navajo. / Il rito d’iniziazione delle donne pigmee.” Il senso del mistero, dello scarto nell’imprevisto domina tutta la concezione di quest’opera, costruita per sovrapposizione di quadri incrementali che sembrano tutti voler contribuire alla identificazione di un varco di senso, forse perché aldilà del dato circostanziato e misurabile, la nostra condizione di esseri viventi e senzienti non è diversa dalla “solitudine / degli atomi d’idrogeno” (davvero una splendida umanizzazione di un elemento come l’atomo che di per sé sarebbe un gretto dato scientifico definito solo dalla sua posizione nella tavola periodica) e non è immune dalla consunzione irreversibile cui è soggetta ogni realtà, come avviene per la nostra galassia a causa del “canceroso buco nero / supermassivo divoratore di stelle”, che si trova nel suo cuore nevralgico.

L’altro elemento importante che si coglie dalla lettura di questi versi è la forte impostazione etica, elemento sempre presente nella poesia di Gallo; qui viene declinata in modo più sottile, meno pedagogico: il che contribuisce a evitare il tono moraleggiante. È evidente il messaggio su come la scoperta scientifica sia uno strumento utile all’uomo per riappropriarsi di una più responsabile e consapevole relazione verso il cosmo, per la ricostituzione di un equilibrio più sostenibile fra uomo e natura nella sua accezione più ampia. Se è vero che forse solo le specie più resistenti saranno destinate a preservarsi di fronte alle imprevedibili mutazioni del cosmo (“gerbilli, tardigradi, platelminti / tisanuri, collemboli, onischi”), in parte questo esito finale catastrofico, ipotizzabile alla luce dei segnali incontrovertibili desunti dalla scienza, è imputabile proprio all’uomo, alla sua condotta sempre più insana e delirante rispetto all’ordine intrinseco allo stato di natura. E da sempre Sergio Gallo concepisce la propria poesia come uno strumento per risvegliare e sensibilizzare le coscienze, inchiodare la civiltà contemporanea alle sue responsabilità, alla necessità di una scelta di rottura rispetto al corso intrapreso. Non a caso nell’epilogo a questo lavoro, in cui è esplicito il riferimento al ruolo della scrittura (“Nubi di Magellano d’inchiostro /separate da incolmabili distanze”), il lavoro del poeta – si dice – è lo stesso di quello del lombrico, fertilizzatore della terra, sempre con la massima umiltà, pur nella lucidità della missione affidatagli.

Fabrizio Bregoli

 
 
 
 
2.
 
Gli oceani colatoi di lacrime
del piccolo Pianeta azzurro
annodato al destino d’una Stella
a sua volta prigioniera della
spirale d’una Galassia nana.
 
Vaganti proiettili
in un Universo asimmetrico
che espande la sua massa
nel Vuoto Cosmico,
senza apparente meta.
 
 
 
 
 
 
4. [Missione Voyager]  
Ancora viaggiano, e ancora
nello spazio interstellare…
Verso il vuoto più profondo,
il vuoto che sappiamo non esistere.
 
Là dove cade ogni influsso
del vento solare. E dove
gli approdi noti sublimano
in ipotesi improbabili.
 
Finché un briciolo d’energia
resterà nei generatori al plutonio
per raccogliere e trasmettere dati
 
tenere la rotta o alla deriva trascinarsi
a quindici mila chilometri al secondo:
 
nessun astro
per oltre quaranta mila anni.
 
 
 
 
 
 
9. [Buco nero]  
Ora che siamo in grado
di comprendere la solitudine
degli atomi d’idrogeno
 
di carpire i segreti
delle particelle elementari
della curvatura spazio-tempo
 
gli effetti gravitazionali
della materia oscura, la mente
quantica, la quinta dimensione…
 
Avremo forse meno timore
dell’ombra che incombe
nel cuore stesso della Via Lattea
 
dell’oscuro Signore degli incubi,
canceroso buco nero,
supermassivo divoratore di stelle?
 
 
 
 
 
 
Epilogo
 
Parole, gigantesche ombre
che incombono sotto l’obbiettivo;
così ingrandite acquistano
nuova ancestrale gravezza.
Nubi di Magellano d’inchiostro
separate da incolmabili distanze
viaggiano nell’universo del foglio
cinte d’immenso e bianco vuoto.
 
In materassi, tappeti o sotto i letti
tra le matasse di polvere vivono
acari e altri reietti microrganismi
dotati di corazze di carbonio;
io a stento cerco di crescere,
tremante foglia aghiforme
imprigionata nei sericei bozzoli
d’una famelica processionaria.
 
Leggo, rileggo e correggo con puntiglio
contento come un lombrico
che assapora la sua foglia;
zelante la studia, la gira, per la punta
se la trascina nel cunicolo.
Così nel cassetto ripongo il plico
sperando che il mio lavoro
almeno possa essere utile
quanto quello del lombrico.