Andrea Sirotti

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Michele Paoletti intervista Andrea Sirotti

 

Immagino che la traduzione di un’opera poetica sia frutto di numerosi compromessi. Senso verso suono e così via.  Come affronti la traduzione di un testo poetico?

La traduzione in generale, e quella poetica in particolare, si basa soprattutto sulla capacità di operare delle scelte; sull’abilità del traduttore di riconoscere nel testo le componenti dominanti, irrinunciabili, dello stile dell’autore, per poi agire di conseguenza.

Per tradurre fedelmente, perseguendo l’unica fedeltà che conta, quella verso la poesia stessa, occorre una profonda conoscenza dei meccanismi e degli effetti del linguaggio poetico in entrambe le lingue e degli elementi costitutivi e caratteristici della poetica dell’autore. Pur nella consapevolezza che non tutto si possa trasferire, soprattutto nella poesia molto formalizzata, bisogna tendere il più possibile a “limitare i danni” e a far passare quanto riteniamo più essenziale e caro alle intenzioni del poeta. Anche per sfatare il famoso adagio (apocrifo?) di Robert Frost secondo cui la poesia sarebbe “ciò che va perso in traduzione”, la sfida del traduttore di testi poetici è far sì che invece gran parte della poesia rimanga. Che si trasformi, magari, che ritrovi un nuovo baricentro e una nuova veste, ma che resti apprezzabile, distinta e distinguibile. Non si tratta di un compromesso, dunque, ma piuttosto una “scelta sensibile” di conservazione e riproposizione.

 

Ci sono stati autori che hai ritenuto particolarmente difficili da rendere in italiano?

Bè, direi innanzitutto gli autori che impiegano forme chiuse. È assai difficile, ad esempio, riprodurre un sonetto shakesperiano con un sonetto petrarchesco, date le caratteristiche molto diverse delle due lingue (tendenzialmente monosillabica e quantitativa la poesia inglese, plurisillabica e accentuativa quella italiana) e ben lo sapevano – a parti invertite – i primi sonettisti elisabettiani alle prese con le traduzioni dal Petrarca. Molto difficile (ma necessario!) è anche tradurre poeti ottocenteschi come Shelley, Keats o Browning per la grande differenza di sensibilità e di gusto. Ma anche tra i contemporanei non mancano gli autori particolarmente ardui da trasferire in italiano. Nella mia esperienza, ad esempio, un’autrice come Carol Ann Duffy, l’attuale poeta laureata del Regno Unito, è molto impegnativa da tradurre, per l’uso di un linguaggio ellittico e ricco di immagini e per i continui riferimenti culturali e intertestuali alla storia, al mito, alla tradizione letteraria, alle traduzioni autoctone britanniche, ecc. Il lavoro di molti anni su di lei, svolto in una fertile collaborazione con Giorgia Sensi, ha visto l’uscita di tre volumi per la casa editrice Le Lettere (La moglie del mondo, La donna sulla luna e Le api) più un quarto di poesie natalizie, in preparazione. Il lavoro sulla Duffy è stato per Giorgia e per me una grande palestra per affinare le tecniche di resa poetica, grazie anche al continuo confronto tra noi. La poesia, almeno nella mia esperienza, si presta moltissimo alla cotraduzione.

 

Ti è mai capitato di metterti in contatto con un autore che stavi traducendo?

Traducendo soprattutto poesia contemporanea mi è capitato abbastanza spesso di confrontarmi con gli autori. In alcuni casi si è avviato un vero e proprio rapporto di collaborazione in cui “il corpo a corpo poetico” col testo originale, l’incontro-scontro tra poetiche, diventava condiviso ed esplicito. In altri casi, gli autori che stavo traducendo preferivano non essere coinvolti nelle mie scelte o difficoltà, ma si limitavano a rispondere a qualche dubbio o quesito, o a soppesare con un po’ di diffidenza il prodotto finito. A volte succede che i poeti si sentano quasi violati  da chi, dall’esterno, mette mano ai loro testi spesso sofferti e meditati fino all’ultima virgola, frutto di un doloroso sforzo di organizzazione e formalizzazione del pensiero e di ricerca della parola esatta. Il più delle volte, però, pur con qualche trepidazione, prevale in loro la soddisfazione e la sorpresa di “ascoltarsi” in una lingua “altra”, di vedersi rispecchiati con nuovi vestiti di foggia e taglio diversi.

 

La maggior parte degli autori che traduci sono definiti postcoloniali, ovvero scrittori che scelgono di esprimersi nella lingua degli ex-colonizzatori. Non credi che questa scelta possa essere meno efficace rispetto a chi si esprime nella sua lingua di origine?

Di solito non è così. I migliori poeti cosiddetti postcoloniali (definizione utile, ma di certo assai imprecisa e poco corretta) sono in grado di “colonizzare” a loro volta la lingua dei colonizzatori, di farla propria aggiungendovi le marcature locali che rendono i loro testi unici e inauditi. L’inglese di un Derek Walcott, di una Sujata Bhatt, di un Wole Soyinka, solo per fare alcuni esempi, è una lingua ricca e sfaccettata, altamente originale, che ha molto da guadagnare dal confronto-scontro tra lingue e tradizioni diverse. Lo stesso avviene per la narrativa. Si può dire che i romanzi di un Rushdie o di un Naipaul o, per citare una straordinaria autrice nigeriana che ho avuto la fortuna di tradurre per Einaudi, Chimamanda Ngozi Adichie, sarebbero stati più efficaci se fossero stati scritti nelle lingue madri dei rispettivi autori? Il loro inglese, lungi dall’essere una lingua imparaticcia e strumentale, scelta per fini eminentemente comunicativi, è di fatto un modello riconosciuto di stile, originalità e ricchezza espressiva anche per gli autori angloamericani.

 

A cosa stai lavorando in questo momento?

Visto che la poesia, per fortuna, non prevede pressanti scadenze (è l’unico aspetto positivo del non avere mercato!), porto avanti alcuni progetti contemporaneamente. Monografie di importanti poeti contemporanei, sconosciuti nel nostro paese, ma anche ritraduzioni di poeti classici. In più collaboro come consulente con alcune case editrici piccole e medie, tra cui voglio citare «Interno Poesia» di Andrea Cati, un giovane editore competente ed entusiasta che ha recentemente inaugurato una collana di poesia in traduzione proprio pubblicando una poetessa indiana a me molto cara, Arundhathi Subramaniam, con un’antologia che ho curato e tradotto dal titolo A una poesia non ancora nata: http://internopoesia.com/libri/a-una-poesia-non-ancora-nata/

 

Leggi anche poeti italiani? Ti è mai capitato di usarli come riferimento per un lavoro di traduzione, magari trovando qualche affinità dal punto di vista metrico o stilistico?

Per chi traduce poesia contemporanea è importante tenersi aggiornato sui vari stili e linguaggi della poesia italiana attuale. Leggo poesia per puro piacere e ho gusti assai eclettici: dalle varianti più liriche e tradizionali a quelle più sperimentali, e lo farei anche se non fossi traduttore. Apprezzo molto anche la poesia performativa e orale e mi incuriosiscono e divertono i “poetry slam”. Tra gli autori contemporanei italiani che in qualche modo “entrano”nelle mie traduzioni nomino quelli che hanno una lunga frequentazione con poeti inglesi o anglofoni, magari traduttori essi stessi, come ad esempio Sandro Pecchiari, Elisa Biagini, Stefano Bortolussi o Loredana Magazzeni. E in generale tutti quelli in grado di dire qualcosa di nuovo nello stile poetico. E qui la lista sarebbe davvero troppo lunga. Malgrado si dica spesso che la poesia è morta, mi sorprendo sempre a notare come sia in grado di “resuscitare”, riproponendosi in forme sempre nuove e in linguaggi più o meno meticci e arricchiti. Nei casi migliori, la poesia è davvero un antidoto all’appiattimento e la standardizzazione della lingua, una pratica necessaria e meritoria di estensione delle possibilità espressive e creative del linguaggio in un dialogo fertile con la tradizione letteraria da un lato e con le altre forme di arte e comunicazione dall’altro. Tra i molti poeti italiani che apprezzo per la ricerca linguistica, voglio ricordare almeno Rosaria Lo Russo, grande maestra di poesia orale e lettura ad alta voce che è stata al mio fianco per le traduzioni di poesia indiana contemporanea all’inizio degli anni 2000 che poi sono sfociate nell’antologia L’India dell’anima uscita per la Casa Editrice Le Lettere: (http://www.lelettere.it/site/e_Product.asp?IdCategoria=&TS02_ID=1190). Rosaria mi ha guidato, tra le altre cose, a cogliere l’importanza fondamentale degli aspetti fonici e ritmici del dettato poetico.

 

Questa lunga frequentazione con la parola poetica non ti ha mai spinto a scrivere qualcosa di tuo?

Ho sempre scritto cose  mie, in realtà, anche prima di cominciare a tradurre. Poesie, racconti brevi… cose che tengo per me e che non ho mai pubblicato (tranne qualcosa su varie riviste, diversi anni fa). Mi rendo conto, però, di avere sempre amato la traduzione. Sin da ragazzo cercavo di dare una versione goffamente “poetica” delle canzoni anglo-americane che amavo. E facevo traduzioni e riscritture di poeti modernisti, soprattutto Eliot, Pound e Yeats, veri miti dei miei anni verdi. Nel mio caso, scrivere poesie per conto terzi e “su traccia”, per così dire, sembra avermi prosciugato l’ispirazione, che evidentemente non è mai stata particolarmente robusta. Diciamo che non mi ha giovato il confronto!

 
 
 
 
When God Is a Traveller
(wondering about Kartikeya/ Muruga/ Subramania, my namesake)
 
Trust the god
back from his travels,
 
his voice wholegrain
(and chamomile),
his wisdom neem,
his peacock, sweaty-plumed,
drowsing in the shadows.
 
Trust him
who sits wordless on park benches
listening to the cries of children
fading into the dusk,
his gaze emptied of vagrancy,
his heart of ownership.
 
Trust him
who has seen enough—
revolutions, promises, the desperate light
of shopping malls, hospital rooms,
manifestos, theologies, the iron taste
of blood, the great craters in the middle
               of love.
 
Trust him
who no longer begrudges
his brother his prize,
his parents their partisanship.
 
Trust him
whose race is run,
whose journey remains,
 
who stands fluid-stemmed
knowing he is the tree
that bears fruit, festive
with sun.
 
Trust him
who recognizes you—
auspicious, abundant, battle-scarred,
         alive—
and knows from where you come.
 
Trust the god
ready to circle the world all over again
this time for no reason at all
 
other than to see it
through your eyes.
 
 
 
 
Quando Dio è un viaggiatore
(riflettendo su Kartikeya/ Muruga/ Subramania, che si chiama come me)
 
Confida nel dio
tornato dai viaggi,
 
nella sua voce di crusca
(e di camomilla),
nel suo neem, albero di saggezza,
nel suo pavone dalle piume sudate,
appisolato all’ombra.
 
Confida in lui
che siede muto sulle panchine
ad ascoltare le grida dei bimbi
dissolversi all’imbrunire,
nello sguardo svuotato di erranza,
nel cuore privo di possesso.
 
Confida in lui
che ha visto abbastanza –
rivoluzioni, promesse, la luce disperata
dei centri commerciali, stanze d’ospedale,
manifesti, teologie, il gusto ferroso
del sangue, i grandi crateri nel mezzo
              all’amore.
 
Confida in lui
che non rivendica più
il premio al fratello,
la partigianeria ai genitori.
 
Confida in lui
che ha corso la sua corsa,
ma ancora gli resta il viaggio,
 
in lui che svetta irrorato di linfa
sapendo di essere lui l’albero
che dà frutti, festoso
di sole.
 
Confida in lui
che ti riconosce—
augurante, abbondante, ferita in battaglia,
              viva—
e che sa da dove vieni.
 
Confida nel dio
pronto a fare ancora il giro del mondo
senz’altra ragione
 
che vederlo, stavolta,
con i tuoi occhi.
 
 
 
 

Andrea Sirotti è nato a Firenze, dove insegna lingua e letteratura inglese nei licei. Critico letterario e traduttore, fa parte delle redazioni di «Semicerchio», rivista di poesia comparata, di «El Ghibli», rivista online di letteratura della migrazione e di «Interno Poesia», blog e casa editrice per la promozione della poesia. Dal 1999 traduce per l’editoria, soprattutto poesia e narrativa postcoloniale. Tra i poeti tradotti figurano Margaret Atwood, Carol Ann Duffy, Eavan Boland e le indiane Arundhathi Subramaniam (premio Ceppo 2014) e Sujata Bhatt. Ha anche tradotto, per Einaudi, Rizzoli e altri editori, narratori come Chimamanda Ngozi Adichie, Hisham Matar, Alexis Wright, Hari Kunzru, Aatish Taseer e Lloyd Jones. Opera da anni come promotore di eventi letterari, collaborando all’organizzazione di festival di poesia internazionale. Dal 2000 al 2008, insieme a Vittorio Biagini, ha curato per il Comune di Firenze le rassegne-concorsi del «Nodo sottile» sulla poesia giovanile. Insieme a Shaul Bassi ha pubblicato nel 2010 Gli studi postcoloniali. Un’introduzione, per i tipi de Le Lettere, Firenze. Per Giunti ha curato le introduzioni al Gitanjali di Tagore e alle opere poetiche di Oscar Wilde (in uscita). Negli ultimi anni si dedica, da freelance, alle attività di scout letterario e di consulente editoriale.