Alessandro Canzian

Bozza automatica 321
 

Michele Paoletti intervista Alessandro Canzian

 

La solitudine non invecchia e, per Alessandro Canzian, ha la forma di un Condominio, luogo/non-luogo dove si incontrano diversi personaggi, ognuno con la sua storia, con la sua solitudine. Sono incontri casuali, spesso privi di dialogo, talvolta addirittura immaginati. Perché come dice lo stesso Canzian “Conviviamo con l’esistenza degli altri ma rifiutiamo una caratterizzazione psicologica, una storia, agli altri.” Eppure basterebbe così poco per rendere quegli incontri qualcosa di prezioso, trasformare uno sguardo lanciato di sfuggita in un dialogo, aprirsi all’altro, all’ascolto. In fondo siamo tutti un verso, una cosa di passaggio eppure non riusciamo, come invece fanno i versi, a lasciare una traccia che risuoni nell’aria e nel tempo, incancellabile almeno per qualcuno.

 
 

Come nascono le tue poesie?

Immagino come nascono un po’ tutte le poesie, se di poesie vogliamo veramente parlare (la definizione è tanto alta quanto abusata, sempre meglio fermarsi alla parola versi): arriva un momento di particolare ascolto della realtà nel quale riesci a cogliere significati altri in quello che vivi, che senti. Una finestra che sbatte mentre cammini diventa l’immagine giusta che può veicolare un concetto che ti arrovella la testa magari da un po’. E infatti, limitatamente alla mia piccolissima esperienza personale, non posso proprio dire che poesia sia invenzione o immaginazione (cosa che ad altri riesce molto meglio). Per me è osservazione, ascolto. Ma la questione più importante non è tanto il momento ultimo della scrittura quanto i giorni, a volte i mesi, precedenti la scrittura.

Perché scrivere è un atto prevalentemente fisico quanto l’osservazione e l’ascolto, ma ha bisogno di un terreno dove attecchire, di un contesto che dia significato. Non basta ascoltare lo sbattere di una finestra e scrivere lo sbattere di una finestra (magari utilizzando una metrica perfetta, o una struttura libera ma impeccabile), bisogna avere nella propria vita un qualcosa che quella finestra che sbatte possa esemplificare, trasmettere. La riflessione a monte è fondamentale, una conditio sine qua non. Ed è (o almeno auspico che sia) il vero valore della poesia che ne salta fuori, ciò che si dice.

In buona sostanza ciò che scrivo nasce da una riflessione che tange la mia esperienza personale ma che non si limita ad essa, che tenta di capire qualcosa dell’essere umano in toto, o della vita in toto, partendo dall’esperienza minima del singolo e che alla fine per un motivo del tutto casuale incontra una realtà che in qualche modo riesce a dare forma attraverso una serie di immagini reali e concrete che, non di rado, riescono a dare addirittura una virgola di significato in più a quella che era la riflessione iniziale.

 

Recentemente sul tuo blog è apparso un interessante poemetto sulle figure di Ero e Leandro. Ce ne vuoi parlare?

Ero e Leandro è un tentativo, una bozza, che nasce da un evento della Scontrosa Grazia (il ciclo di incontri che tengo dal 2015 a Trieste assieme a Sandro Pecchiari e Federico Rossignoli) dove avevamo deciso di parlare appunto di Ero e Leandro nelle versioni di Museo (tradotto da Bevilacqua) e Marlowe. Io ne parlavo accompagnato (o meglio, io accompagnavo) dallo straordinario Sandro il quale, oltre ad essere un grande poeta, è anche un bravissimo comunicatore di poesia. Un uomo letteralmente capace di far sentire la giocosa malizia del mare che amoreggia con il corpo di Leandro mentre nuota. E da quell’immagine, quella sensazione che metteva il mare al centro del discorso, è iniziato il mio percorso di riscrittura del mito.

Perché di riscrittura si parla. Ricollocazione, rilessicazione. In questo caso mancano le finestre che sbattono di cui sopra ma si ha una base di partenza già scritta. Ricollocarla significa riscriverla oggi, secondo la cultura e i parametri di oggi. Significa chiedersi oggi come andrebbe a finire, cosa realmente succederebbe, cosa proverebbero i personaggi. Perché i tempi sono cambiati, sono passati secoli, millenni (dipende dalla versione), e noi in quanto genere umano siamo mutati. Oggi Ero attenderebbe trepidante Leandro? Si ucciderebbe per lui? Oggi Leandro amerebbe in maniera così onnicomprensiva e liberatoria Ero fino a morire per lei? E morirebbe realmente per lei? Tutte domande che fanno del mito un metro di misura della nostra cultura.

Una cosa interessante mi è venuta da una sera in cui ho reso disponibile nel blog l’intero poemetto: le critiche ricevute (le avevo espressamente richieste). Alcuni plausi, alcune stroncature. Una di queste ultime si soffermava sul fatto che lo stile è troppo desueto, a tratti noioso, perché riprende elementi e caratteristiche vecchie di secoli. Questo devo dire mi ha convinto ancor di più della bontà (del tutto presunta) del poemetto in quanto è a tutti gli effetti una riscrittura di poemetto e in quanto tale non può prescindere dall’ancorarsi a uno stilema preciso.

Un’altra critica, che in realtà è più di una, riguarda la crudeltà di Ero e la dabbenaggine di Leandro. In sintesi i due personaggi si incontrano, a differenza del poemetto originario non avviene il percorso di sacrificio e impegno e attesa che porterà i due a consumare segrete nozze nel palazzo di Ero, ma si lasciano travolgere immediatamente dalla passione sulla spiaggia dove ci sono le prime avvisaglie dell’egocentrismo del personaggio femminile esclusivamente concentrata su se stessa e il proprio piacere. E le prime avvisaglie della stupidità in cui incappa Leandro innamorandosi della sua bellezza fino a rendersi un mero strumento del piacere di lei. Ero poi torna nella sua torre e Leandro nuota, come nel poemetto originario, tutte le notti verso il suo letto ma, e qui mi riallontano dal mito, Ero lo rifiuta. Ero aveva avuto bisogno solo di quella notte di sesso mentre Leandro si era innamorato della sua bellezza. Ma Leandro non lo capisce, e continua a pensare che se aumenta i suoi sacrifici, se aumenta il suo impegno alla fine Ero capirà e contraccambierà. Ma Ero non accende nemmeno mai la lampada fino al noto quanto tragico epilogo che diventa una semplice morte annunciata a un Leandro che, accecato da un amore stupido, non ha voluto ascoltare. Mentre Ero già si consola nella torre con un altro uomo.

Anche in questo caso ho colto volentieri ma con un po’ di perplessità la critica che vede Leandro come un povero sciocco ed Ero esageratamente crudele. Da una parte perché il mito di Aristotele e Fillide comunque ci mostra l’uomo piegato alla bellezza e sensualità femminile, esemplificando ciò che è una realtà umana, da un altro punto di vista perché oggi, per quanto un ambito prettamente femminista possa faticare ad accettarlo, non è raro trovare una donna così.

La questione di Ero e Leandro la vedo come una descrizione del momento storico in cui ci troviamo. Momento in cui la donna ha gli strumenti culturali, sedimentati e accresciuti nei secoli, per vivere indipendente ma li usa in maniera aggressiva ed egotica, cercando lo scontro di genere in più ambiti possibili. L’uomo invece è diventato più psicologico, più sentimentale, ma totalmente privo degli strumenti di protezione che la donna ha ricevuto in dono da secoli di storia.

Il tutto dal punto di vista di un mare che condanna apertamente sia Ero sia Leandro ma che in qualche modo ammette d’essersi lasciato ammaliare dalla bellezza di lei. Perché in ultima istanza, e questa è la virgola di significato in più di cui parlavo prima, questo è il poemetto: una critica alla bellezza femminile che può essere tramite verso il cielo, la perfezione (la storia ci consegna diversa letteratura in questo senso) quanto strumento crudele e assassino se usata senza bontà, senza accortezza. Oggi io la vedo come una merce di scambio utilizzata per la propria emotività nel senso di Bauman.

In ultima battuta devo dire che comunque Ero e Leandro resta una bozza. Alcuni anni fa ho tentato di riscrivere il Luceafarul di Mihai Eminescu che qualche fortuna devo ammettere l’ha avuta (è stato discusso a Venezia in occasione dei festeggiamenti nazionali per il poeta rumeno). Ma il tutto resta sempre e comunque a livello di bozza, di tentativo. Non è ancora un percorso definitivo o con caratteristiche che posso dire fisse. E forse non lo sarà nemmeno mai.

 

Sempre sul tuo blog troviamo i diversi personaggi che costituiscono il Condominio S.I.M., raccolta su cui stai lavorando da tempo e, forse, giunta alla pubblicazione. Com’è nata? Come si è sviluppata?

Alcuni anni fa ho letto che gli scrittori e i poeti quando scrivono in effetti scrivono sempre e solo un unico libro, la medesima storia. Nel mio piccolissimo (e probabilmente anche un po’ ignorante dato che non ne ricordo la fonte) sto scrivendo anche io un unico libro, o meglio sto girando attorno alla medesima questione: i rapporti umani. Il Condominio S.I.M. nasce nel e dall’appartamento dove vivo dopo la separazione dalla madre di mio figlio (S.I.M. sta per Società Immobiliare Maniaghese ed è letteralmente il nome del palazzo dove abito) osservando e ascoltando quello che succede. Dalla donna delle pulizie che avevo incontrato molti anni prima quando abitavo in un altro paese, a un ragazzo che porta sempre un cappellino in testa, a una ragazza che vive sotto di me e che solo di rado sento esserci, ai rumori dell’appartamento di sopra e via dicendo.

Lo stare in un appartamento significa avere un rapporto con gli altri ma come dall’interno di una bolla d’acqua. I rumori, le presenze umane arrivano filtrate dalle pareti che separano le nostre vite. Ed è come nel quotidiano: ci rapportiamo agli altri ma con una parete invisibile in mezzo.

Il Condominio S.I.M. nasce all’interno di una relazione durata molti anni con la mia Irma Brandeis del caso. Inizia con la Ragazza di nome Olga che conclude il libro Il colore dell’acqua (Samuele Editore, gennaio 2016) e in realtà non doveva andare molto oltre quel poemetto, appunto Olga. Sta di fatto che poi le dinamiche del semplice vivere hanno portato Carlo come riflessione sul rapporto altro uomo, sull’incapacità di odiare l’altro uomo che entra nella relazione, sulla facilità con cui noi uomini siamo per una donna vestiti da cambiare. Fino a capire poi che potevo svolgere tutta una serie di personaggi accogliendo pezzi e caratteristiche delle diverse persone e umanità che nel mio lavoro di Editore incontro.

Tornando al discorso iniziale dello scrivere sempre lo stesso libro devo ammettere (cosa abbastanza inutile in quanto mi viene continuamente ripetuto dagli amici che lo leggono) che in effetti tutti i personaggi del Condominio ripetono e ripropongono diverse sfaccettature del mio rapporto con Irma, fino alla conclusione rilkiana che, come per Ero e Leandro, deriva da un incontro della Scontrosa Grazia dove abbiamo parlato del mito di Orfeo ed Euridice.

Per quanto riguarda la pubblicazione non è al momento prevista nel senso che non trovo ancora un Editore disposto a metterci il logo sopra. L’opera è conclusa in quanto non riesco più a modificarla e, onestamente, nemmeno a leggerla. Oggi non la riscriverei più così ispida, con versi così contorti e spezzati. Ma riconosco sia la forma più adatta a quel contesto, a quel tentativo di capire il muro divisorio tra le persone.

 

La scelta di diventare Editore ha in qualche modo influenzato il tuo modo di scrivere? Si è creato un conflitto o una sinergia?

Devo dire ambedue le cose. Conflitto in quanto non ho molti momenti per propormi come autore (il mio lavoro è proporre gli autori che pubblico, non me stesso) e questo va a ledere un’attività a cui forse una volta tenevo più di adesso. Sinergia in quanto il contesto, l’ambiente che la Casa Editrice permette di vivere, è sicuramente fertile e stimolante per la riflessione e anche per un semplice (ma non banale) imparare a scrivere. Come dicevo prima Ero e Leandro non sarebbe venuto fuori senza la Scontrosa Grazia, che è un evento Samuele Editore.

Sul come ha influenzato devo ammettere di non saper rispondere esaustivamente. A parte un solo esempio (relativo al mito) di scrittura che mi ha affascinato e ho tentato di fare mia non riconosco negli autori dei veri motivi di cambiamento per la mia scrittura. O meglio, sono confronti utilissimi ma la letteratura classica resta il mio rapporto privilegiato, inevitabile.

 

Come editore e come autore sei molto attivo sui social. Qual è il contributo che possono dare alla poesia? E all’editoria?

I Social, e soprattutto Facebook, sono strumenti di comunicazione e in quanto tali sono essenziali all’Editoria. Anni fa sono stato criticato e attaccato aspramente d’abusare della piattaforma in quanto un mondo molto piccolo, oggi vediamo utilizzare la medesima piattaforma per gestire e veicolare addirittura grosse campagne elettorali e Zuckerberg chiede scusa all’intero pianeta per non avere posto abbastanza controlli. Questo ci dà la misura non di cosa può essere, ma di cosa effettivamente già è un canale Social.

A questo dobbiamo aggiungerci la crisi dell’Editoria che ha aumentato esponenzialmente le criticità distributive della piccola e media Editoria portandoci quasi alla disfatta. Portandoci alla necessità, già vissuta un secolo fa, di ricollegarci al singolo cliente.

Oggi infatti un libro non è più solo un autore che scrive e un Editore che pubblica. Oggi un libro è anche un lettore che legge. Un lettore che l’Editore conosce e deve conoscere quasi personalmente. Una Casa Editrice è diventata un momento di aggregazione culturale che propone eventi, discussioni, pensieri, sulla base dei libri che pubblica. E senza i quali non può vivere. Il Social Media permette di creare questo ambito che bypassa la distribuzione andando a parlare direttamente col lettore, coinvolgendolo, cercando la sua opinione.

Per quanto riguarda la Poesia la questione si fa un po’ più spinosa. Se per quanto riguarda un’attività editoriale che non può prescindere dalla costruzione di un brand, una riconoscibilità, la comunicazione può essere positiva, per quanto riguarda il cosiddetto popolo dei poeti la comunicazione ha portato a un abbassamento totale della qualità e a un annichilimento di una critica che già di per sé non godeva di ottima salute. Oggi pare che per essere poeta (per fortuna non sempre e non per tutti) basti avere un canale Youtube o una pagina Facebook o un profilo Instagram. Se hai abbastanza followers ecco Mondadori che ti propone un contratto. Basti pensare a Francesco Sole e basti pensare da dove siamo partiti appena pochi anni fa. Chi ricorda Franco Alvisi? Prima bastava andare al Grande Fratello per essere pubblicati (salvo poi far sparire l’edizione), oggi basta avere un canale Social e farlo funzionare.

Ma cosa vuol dire far funzionare un Canale Social? Semplicemente parlare un linguaggio comprensibile ai più. Il dubbio che a me viene è che oltre al linguaggio anche il significato finisca col piegarsi a quello che vogliono i più.

E la domanda fondamentale diventa: veramente la poesia deve dire quello che vogliono i più?

 

Come scegli i libri da pubblicare per Samuele Editore?

La scelta di un libro da pubblicare non è mai semplice e implica tutta una serie di fattori. Come lo è la lettura in fondo.

Inizialmente leggiamo l’opera quasi tutta d’un fiato, oppure a stralci un po’ qua un po’ là. Questo per sentire la voce dell’autore. Per cercare di capire se a pelle c’è o non c’è la farina per fare il pane. Alcuni anni fa a un’edizione dello Strega (mi pare) una giornalista chiese a un giurato come facevano a leggere tutto quel materiale. Il giurato, anziano, disse che inizialmente non leggevano tutto ma solo alcune pagine dell’opera per capire se c’era o non c’era materiale. Il giurato è stato aspramente criticato per quell’affermazione ma in realtà funziona proprio così. Inizialmente, e ripeto inizialmente, non serve leggere in maniera approfondita tutto ma sentire se c’è linguaggio e profondità di dettato. Questa è una cosa che non viene salvata in extremis da una seconda parte dell’opera o dalla chiusa o da chissà cos’altro. O c’è o non c’è.

In seconda battuta, se scatta la scintilla, il riconoscimento della voce, si passa a una lettura più approfondita che già cerca di identificare eventuali necessità di editing, possibilità di collocazione, di relazione con altre opere o discorsi già in atto in Casa Editrice.

Perché una Casa Editrice è un dialogo culturale che si nutre dei libri che pubblica e li identifica in virtù di questo, o in virtù di un nuovo percorso che il libro può portare.

 

Samuele è anche il nome di tuo figlio. Se decidesse di seguire i tuoi passi e diventare editore anche lui quali sarebbero i consigli che gli daresti?

Sicuramente di non fare l’Editore. O almeno non farlo come lo faccio io. Questo perché è un lavoro affascinante ma c’è veramente tanto da perdere, troppo da perdere. In primis a livello economico, basti pensare che una Casa Editrice è una realtà che deve sottostare alle regole del commercio, di un’azienda, ma non può seguirle. Se io seguissi le regole del commercio che sono le regole imposte dalle persone, da ognuna delle persone che anche in questo momento stanno leggendo questo articolo (anche se non lo ammetteranno mai, anche se c’è chi ha un motivo in più per confutarmi e chi ne ha uno in meno), dovrei fare telefonini, non libri. Perché quello la gente compra. Quando ci lamentiamo delle edizioni Mondadori dimentichiamo che è un’azienda che deve vendere per stare in piedi, per cui segue la richiesta del mercato e pubblica quello che le persone comprano.

Un amico Editore, ben più vecchio e di successo di me, in un viaggio in treno una volta mi ha spiegato la legge dell’equilibrio. Sostanzialmente un Editore deve fare alcuni libri di cui poi si vergognerà profondamente, ma che venderanno come il pane, per poter pubblicare quel titolo ottimo, di qualità, di prestigio, che proprio per la sua natura non venderà. Quei libri di cui l’Editore si vergognerà daranno la base economica per quel libro ottimo.

In Editoria di poesia vige la legge, da secoli, del carmina non dant panem, quindi le scelte che si prospettano sono le seguenti: o non fare più poesia per cose che la gente compra più facilmente (lamentandosi che non ci sono Editori che si impegnano sulla poesia) oppure rompersi la testa sui libri di poesia cercando di renderli realizzabili in qualche modo, cercando di portarli avanti. Faccio un esempio: in questi giorni, dopo aver abbandonato un po’ lo strumento Crowdfunding perché nel tempo le persone si sono dimostrate insofferenti a investire 12 euro al mese per permetterci di dare loro dell’ottima poesia, stiamo utilizzando il sistema delle prenotazioni libere. Stiamo proponendo il libro postumo di Francesco Belluomini, presidente del Premio Camaiore, un pezzo di storia dell’Italia e della cultura dell’Italia. Un uomo e un poeta a cui tutti dobbiamo molto. A questo punto si penserebbe a una valanga di prenotazioni almeno per gratitudine da parte di quanti negli anni sono stati coinvolti in uno dei maggiori e più prestigiosi premi letterari legati alla poesia. E invece no: a un mese abbiamo 16 prenotazioni. Il libro viene, scontato, 10 euro. 16 prenotazioni pur avendo comunicato la cosa direttamente ad almeno 3 mila persone potenzialmente interessate (newsletter Laboratori Poesia, newsletter Samuele Editore, newsletter personale mia, canali social miei e della moglie di Belluomini). Questa è la realtà dell’Editoria di Poesia.

Nonostante tutto però la mia scelta continua ad essere quella di fare l’Editore di Poesia che per me ha il significato di far pensare le persone. Domenica saremo a Porcia alla Villa Correr Dolfin con il Festival della Letteratura Verde e sarà non un momento di esibizione dei poeti, di ostentazione delle voci, ma di scambio e riflessione comune. Questo so fare, e questo sto cercando di continuare a fare perché questo mi permette di lasciare un segno nel mondo. Lo stesso segno che ha permesso a me, quando ero un adolescente mezzo scapestrato e uscito di casa, di continuare a leggere una collezione di libri degli anni 60 che mio nonno, un semplice spazzino che con un corso serale era riuscito a scalare la piramide della sua collocazione facendo per così dire carriera, aveva acquistato per mio padre. Quel segno che ha permesso a me di vedere un’altra realtà, un altro mondo, un’altra occasione.

C’è troppo da perdere anche a livello umano. È difficile per una donna stare vicina a un Editore perché non sei il classico ingegnere che può darle la casa, la macchina bella, le vacanze al mare e inevitabilmente, donna dopo donna, grandi dichiarazioni di non interesse per la parte economica dopo grandi dichiarazioni di non interesse per la parte economica, finiscono per scegliere altri uomini ben più piazzati economicamente, o che comunque possono dare di più (per quanto tale affermazione possa far infuriare i più, e le più, la mia esperienza questo insegna, e mi insegna che la propaganda che stiamo attuando da alcuni anni pro donna è in realtà controproducente, strumentalizzata, sia dall’uomo sia dalla donna). E a te restano i libri, e una gatta pelosa, e un figlio che si lamenta che non vuole venire a fare gli eventi ma che comunque costringi sperando che colga qualche concetto, che si lasci inquinare dall’intelligenza e dalla bellezza che ogni tanto la poesia sa trasmettere.

C’è troppo da perdere a livello umano anche per quanto riguarda ciò che resta e che ho appena detto: i libri. Perché i libri sono fatti da persone ed è normale che spesso ti usino solo come strumento per la propria promozione, senza dare nulla a te come Editore o dare nulla al discorso culturale che cerchi di portare avanti. Esistono autori che sono stati delle grosse delusioni più umane che letterarie, e quando fai l’Editore come lo faccio io ogni perdita, ogni delusione, ogni abbandono è un dolore che continui a portarti dentro.

Ma c’è anche qualcosa da guadagnare. Ci sono libri che ti insegnano a vivere, ci sono autori che diventano così amici da essere fratelli, ci sono persone che si lasciano contagiare dalle tue idee e le migliorano, lavorano spalla a spalla con te, vedi la stanchezza quanto l’esaltazione intellettuale nei loro occhi e riconosci la tua medesima stanchezza ed esaltazione intellettuale, la certezza condivisa che stiamo facendo qualcosa di utile, di buono.

Questo vorrei per mio figlio, solo non nella strada che ho scelto oppure che è toccata a me. Vorrei per lui fosse meno complicato, più sereno.

 
 
 
 
Il Condominio S.I.M. – Aldo
 
Quando si è soli tutto è buono.
Anche la cinquantenne trovata a ballare
mezza nuda e che ti chiede
solo di stare bene. Non fa
differenza l’età, direbbe Aldo
che è rimasto solo pochi giorni.
La solitudine non invecchia.
 
 
 
 
Aldo è rimasto solo pochi
giorni nel condominio, quel tanto
che basta ai vicini a lamentarsi
del troppo rumore e della
musica troppo alta
il sabato sera, alle feste,
per nascondere le grida
di qualcuno che non c’è.
 
 
 
 
Il Condominio S.I.M. – Giulia
 
Ho incontrato Giulia stamattina
– in questi giorni bianchi in cui
l’ascensore ancora non funziona –
ed era truccata e incastonata
tutta alle sue spalle. Forse
un appuntamento di lavoro, una
borsa raffazzonata tra le mani,
una notte da non immaginare.
 
 
 
 
Oggi ho aspettato l’ascensore
che non funziona ormai da mesi.
Nemmeno le scale funzionano
più da quando Giulia non scende
con uno sguardo che non esiste
se non in una piccola fotografia
lasciata per caso in mezzo all’atrio.
In fondo siamo tutti un verso,
una cosa di passaggio.
 
 
 
 
Un frammento dal poemetto Ero e Leandro
 
[…]  
Non so dirti chi o cosa volle
quel vento o quella pioggia.
 
Ma non fui io.
 
Dio mai lo vidi, mai nell’alto
né nel fondo che contemplo,
mai lo sentii cantare con i pesci
o camminare tra i fondali.
 
Non posso chiamare in causa
l’ignoto, credo solo
che il corpo bianco di Leandro
ora reso tramonto nello scoglio
aveva l’orrore del dolore
che non è stato trattenuto.
 
Se vuoi sapere cosa penso
considera ciò che vedo:
uomini che perdono
tempo e vita come segni
d’acqua sulla sabbia.
 
Ogni giorno
per un istante e basta.
 
 
 
 
Potete leggere il poemetto completo, le altre poesie e gli altri personaggi del Condominio S.I.M. sul blog: https://alessandrocanzian.wordpress.com/