Quelle piante che non sono più tornate in fiore – Giovanni Vanacore

Quelle piante che non sono più tornate in fiore - Giovanni Vanacore

 
 
 
 
le nuvole promettendo la neve
si sono dileguate nel tiepido
inverno – adesso non conosco
parole per spiegare quelle piante
che non sono più tornate in fiore
(ci fosse stato il gelo avrei saputo
verso cosa rivolgere il mio odio)
 
 
 
 
 
 
d’inverno non marcisce la frutta
mia madre lascia sulla tavola
mele e mandarini per tutta la notte
 
il loro succo (sangue) si congela
e diventano dentro di un ghiaccio
che non lascia affondare i denti
 
mia madre è un vegetale lasciato al gelo
che si può conservare per sempre
ma non è più buono da mangiare
 
 
 
 
 
 
il problema è nella strada
dell’eterno ritorno
che mi riporta a casa
 
alla mia stanza cambiai
il colore delle pareti
e cambiai il letto
ma niente è diverso
 
qualcosa d’inquieto nel profondo
del cemento – cigola di notte
e io non dormo mai
 
(Giovanni Vanacore, inediti)
 
 

In questi inediti di Giovanni Vanacore si assiste al ritratto impietoso di una lucida coscienza della precarietà dell’esistere, trasfigurata alle immagini topiche dell’inverno e della neve – in opposizione alla fioritura primaverile, come se essa stessa covasse in seno una promessa di decadimento – e pregna di una sofferente irrequietezza ed inquietudine, che paradossalmente risulta essere l’elemento più vitale presente nei testi.

La neve appare come un elemento pacificante, “promesso” dalle nuvole, che, dileguandosi in un “tiepido / inverno”, deludono questa aspettativa di dissolvenza quieta: nel tumulto che ne consegue l’io del testo non conosce “parole per spiegare quelle piante / che non sono più tornate in fiore”, come a riferirsi a ciò che nell’esistenza non può più tornare a ricomporsi in uno stato di prosperità pristina, sia che si tratti di moti interiori che dell’incoscienza giovanile, o del peso degli anni che piegano il corpo; nella chiusa si parla di “odio”, che sarebbe stato semplice rivolgere verso il gelo, verso un “avversario” naturale e prevedibile che desse una prospettiva di senso persino al tramontare delle cose – ma così non è, e la mancanza si traduce in un colpo incapace di sapere dove andare a cadere.

Nel secondo testo il riferimento a tali processi si sposta su un soggetto esterno, e in particolare sulla madre, osservata in relazione alla frutta sul tavolo di casa, che “d’inverno non marcisce” perché “il loro succo … si congela”, rendendo impossibile assaporarla ma, al contempo, impedendone il decadimento esteriore; allo stesso modo si ritrae la madre, “vegetale lasciato al gelo / (che) si può conservare per sempre / ma non è più buono da mangiare”. L’amarezza di un’evoluzione inaccettabile del trascorrere del tempo, che rende la sopravvivenza infelice e sofferente, si avverte nitidamente, come si diceva, in un tono irrequieto, incapace di rinvenire un superamento all’empasse del deterioramento e della provvisorietà.

“il problema è nella strada / dell’eterno ritorno / che mi riporta a casa”, continua Vanacore; una casa in cui, nonostante i tentativi di rinnovamento, “niente è diverso”: la stasi di questa familiarità dolorosa si concreta in “qualcosa d’inquieto nel profondo / del cemento” – trasportandosi nell’ambiente urbano circostante, personificazione delle nevrosi contemporanee di fronte all’insensatezza dell’essere stato “gettato nel mondo”, per citare Hediegger, e di doverne testimoniare le contraddizioni desolanti e inaccettabili. Tale dimensione altra “cigola di notte”, traducendosi in un confronto costante con le proprie ansie e inquietudini, “e io non dormo mai”.

Testi brevi ed essenziali, con poche immagini raccolte e concentrate, con cui l’autore riesce a tratteggiare la condizione della nevrosi esistenziale dell’uomo moderno di fronte a un’esistenza che gli risulta spesso insensatamente penosa. Eppure, è proprio nella vitalità di tale insofferenza, che impedisce il riposo della mente e del corpo, che si avverte il germe innominato della rivoluzione contro tale condizione, e la denuncia di doverne tentare un superamento.

Mario Famularo